Il quarantesimo chilometro.
Faceva
qualche esercizio di stretching, per quanto consentiva l’angusto
spazio che aveva a disposizione in mezzo agli altri corridori.
Attorno a lui c’era il gran vociare euforico di una folla che si
appresta ad una grande impresa. Il clima era splendido, l’aria era
fresca, non poteva capitare una giornata migliore. Indossava il
pettorale numero 3577, e aveva una gran voglia di partire. Anna, la
sua compagna, non era altrettanto entusiasta. “Ma sei sicuro? Vuoi
farlo lo stesso, anche dopo quello che è successo?” Gli aveva
chiesto con lo sguardo premuroso, prima che entrasse nelle gabbie.
Che domande, certo che voleva farlo, ci mancherebbe altro! Si era
allenato per mesi, aveva programmato le sue settimane e le sue
giornate per arrivare preparato a quell’evento. Avrebbe partecipato
a quella maratona, nonostante tutto. Tentò di sgombrare la mente
ricontrollando la sua attrezzatura. Il cardiofrequenzimetro
funzionava, il cronometro pure, le scorte alimentari erano al loro
posto. Si allacciò per l’ennesima volta le scarpe, stringendo per
bene. Adesso era concentrato, mancavano pochi minuti alla partenza e
fra i partecipanti era calato un silenzio trepidante. Prima di quanto
si aspettasse un colpo di cannone diede il via. Fu il boato più
potente che avesse mai sentito, o almeno così gli sembrò. Fra le
urla festanti del pubblico, l’esodo ebbe inizio, a migliaia si
immisero nel percorso in un caotico scambiarsi di posizioni, secondo
il ritmo che ognuno voleva dare alla sua gara. Dopo tre o quattro
minuti impiegati per farsi largo tra la folla, trovò lo spazio che
gli serviva e cominciò a far girare le gambe. Un centinaio di metri
davanti a lui ballonzolava la maglietta gialla di un altro
concorrente, con la scritta “Hard Rock” sulle spalle. Decise di
accodarsi a lui, trovando facile sostenere la cadenza del suo passo.
Sorrideva, provava una sensazione bellissima e liberatoria. Non
pensava affatto a quello che era successo. Pensava solo a correre.
Al quinto
chilometro osservò il suo cronometro. Stava filando a un ritmo più
veloce di quel che aveva programmato. Troppo veloce. Temeva di
pagarla nel tratto finale, quando le energie servono davvero. Se
voleva arrivare al traguardo doveva risparmiarsi, doveva controllare
l’impeto, ma non era facile, dopo tutto quella era la sua prima
maratona. Chi l’avrebbe mai immaginato? Lui, tutto computer e
scrivania, che si faceva quarantadue chilometri al trotto. Ripensò a
com’era cominciata quella avventura, dieci mesi prima. Stava
facendo la sua solita passeggiata nel parco quella domenica mattina,
quando un ragazzo che faceva jogging lo superò saltellando
elegantemente. Sarebbe piaciuto anche a lui correre, mantenersi in
forma. Sì, doveva assolutamente farlo, e nel momento stesso in cui
prendeva questa decisione, si pose anche l’obiettivo di portare a
termine una maratona, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Lui era fatto così, si faceva rapire dalle sue idee. Quella sera
stessa, durante una cena a casa dei genitori, dichiarò la sua
intenzione quasi senza prendersi sul serio. Ci scherzarono un po’
su, tra una forchettata di pasta e un boccone di arrosto, finché suo
padre, con il suo solito volto di cemento, affermò: “Se ti conosco
bene abbastanza, finirai per fermati al quarantesimo chilometro.
Inizi un milione di progetti e non ne porti a termine nemmeno uno.”
Suo padre.
Quel severo, esigente uomo distante. Non gli aveva mai concesso un
riconoscimento in tutta la vita. Un osservatore indifferente. Peggio:
un critico incontentabile.
Il giorno
successivo diede inizio alle ricerche sui metodi di allenamento e
fece la sua prima, breve corsa serale.
Dopo undici
chilometri scomparve un piccolo dolore che si era manifestato ai
muscoli tibiali. Ora andava tutto bene, la sua corsa era sciolta. I
suoi tempi erano ancora troppo veloci e il cardiofrequenzimetro
segnava battiti troppo elevati, tuttavia non si sentiva affaticato.
Davanti a lui, mister Hard Rock era già in difficoltà, aveva
rallentato, la sua maglietta gialla era sempre più vicina. Lo
sorpassò in scioltezza, traendone una immensa soddisfazione. Pensò
che forse era una di quelle giornate in cui ti riesce tutto bene.
Come quella volta che incontrò Anna, la sua Anna. Fu tutto così
naturale, quella sera: fu sufficiente uno sguardo per capire. Si
avvicinò a lei con la certezza di piacerle, ed era vero. Trovò
tutte le parole e gli argomenti giusti, la conquistò. L’affiatamento
di quel primo incontro si trasformò in complicità nelle settimane
successive, e ben presto divenne amore. Non si erano più lasciati,
avevano anche pensato al matrimonio, avevano ipotizzato di avere
figli, un giorno. “Chissà come sarebbero felici i nostri genitori
di poter fare i nonni.” Gli diceva Anna, sorridendo, ogni volta che
ne parlavano. Davvero, sarebbe stato meraviglioso, bisognava
solamente aspettare il momento giusto, in un mondo così complicato.
Ma il momento giusto per sposarsi non era mai arrivato, men che meno
per fare figli. Mai negli ultimi otto anni.
Percorrendo
il lungo rettilineo che iniziava al diciannovesimo chilometro si
accorse di essere rimasto solo. Non c’era pubblico, nessun
concorrente né davanti, né alle spalle. Solo un vigile, in fondo,
che controllava che si svolgesse tutto bene in quel tratto fantasma.
Non era
certo una novità per lui. La sua azienda lo mandava spesso in
viaggio all’estero per fare i controlli di qualità del prodotto, e
doveva passare intere settimane da solo, in paesi dove non conosceva
nessuno. Per meglio dire: coloro che lo conoscevano, non lo trovavano
simpatico. Come può starti simpatico uno che ti fa le pulci tutte le
volte che si presenta alla tua porta? Ad ogni modo la solitudine non
era una condizione che lo spaventava. Nel silenzio della camera
singola dell’albergo di turno, la sera, poteva leggere senza
distrazioni. I suoi preferiti erano i romanzieri russi. Tolstoj in
particolare. Si sentiva bene anche passeggiando nei centri cittadini
stracolmi di persone che non potevano riconoscerlo, amava le vie
commerciali, sperimentava le specialità culinarie del luogo. E poi
lontano da casa si sentiva di buon umore, come alleggerito da una
zavorra mentale. Questo nei primi giorni, poi, trascorsa una
settimana, subentrava la nostalgia, forse però sarebbe stata meglio
chiamarla in un altro modo: era più l’incombenza di un dovere, il
richiamo delle radici. Due anni prima, l’amministratore
dell’azienda l’aveva convocato nel suo ufficio: gli aveva fatto i
complimenti per il suo lavoro, e gli aveva detto che intendeva
proporgli di assumere il ruolo di dirigente aziendale, a capo del
settore qualità. Lusinghiero, certo. Ma quanto tempo avrebbe dovuto
dedicare al lavoro? Quante responsabilità, quanti pensieri sarebbero
derivati da questo avanzamento di carriera? La sua vita ne sarebbe
uscita di certo stravolta. Inoltre rischiava di fare il passo più
lungo della gamba, di non essere in grado di reggere la pressione.
Meglio continuare a fare quel che stava già facendo, era più
sicuro. Rifiutò l’offerta, nella certezza di aver fatto la cosa
giusta. Non aveva mai raccontato a nessuno di quella scelta, non alla
sua famiglia, e neppure ad Anna.
Sfilò
davanti al vigile che lo seguiva con il suo sguardo impassibile, alla
fine del rettilineo. Dietro la curva che stava affrontando vide il
punto di rifornimento, rallentando appena afferrò un bicchiere di
acqua e un integratore di sali minerali. Ne aveva davvero bisogno,
cominciava a sentire una certa secchezza in fondo alla gola.
La fame lo
colse al ventottesimo chilometro. Era normale che fosse così. Come
prevedeva il suo programma di gara, si era svegliato tre ore prima
della partenza e aveva fatto una colazione abbondante, a base di
fette biscottate integrali e miele, senza farsi mancare qualche
grammo di prosciutto. Circa cinquecento calorie in carboidrati e una
piccola dose di proteine. Dopo il chilometro venti aveva mangiato le
maltodestrine in gel, al rifornimento successivo buttò giù una
barretta alla frutta, ora era quasi giunto il momento di utilizzare
la seconda busta di gel. Durante gli allenamenti aveva testato tutti
i gusti esistenti in commercio, ma nonostante i volonterosi
tentativi, nessuno era ancora riuscito a rendere quella roba meno
disgustosa. Cominciava a sentire le gambe un po’ pesanti, il fiato
era buono, sebbene più affannoso di prima, il ritmo era leggermente
calato. D’altra parte era già ben oltre la metà della gara. Aveva
immaginato di essere più stanco, a questo punto. Si persuase che
avrebbe potuto tagliare il traguardo in meno di quattro ore senza
tanti problemi. Niente male per una matricola. Una matricola, già.
Gli tornarono in mente i primi tempi alla facoltà di statistica,
quando era convinto che sarebbe riuscito a laurearsi in corso. In
effetti era partito bene, il primo anno aveva fatto il percorso
netto: trenta in tutti gli esami. Poi aveva perso l’entusiasmo, non
rispettava più il programma di studi. Aveva completato gli esami
dopo sette anni, ma non aveva mai finito di preparare la tesi. Aveva
piantato lì e non sapeva nemmeno lui perché. Si vede che era
destino. Guardò a terra, i suoi piedi si alternavano sull’asfalto,
a ogni passo la fatica cresceva, e cresceva la consapevolezza che suo
padre aveva ragione. Lui era uno di quegli uomini che mollano sempre.
Al
trentatreesimo chilometro lo stomaco lo tradì. Il gel ballava su e
giù come una pallina all’interno di un flipper. I tentativi di
digestione si traducevano in rigurgiti acidi e gli rendevano
difficile anche una respirazione regolare. Doveva saperlo che sarebbe
stato lo stomaco. Maledetto, maledetto stomaco, voleva portagli via
anche la maratona? Non bastava che si fosse già preso suo padre? Suo
padre, cinque mesi prima, aveva cominciato ad avere problemi di
digestione e dolori all’addome sempre più frequenti e più forti.
Al primo esame lo trovarono: un tumore maligno, aggressivo, rabbioso.
Sua madre piangeva, quando gli diede la notizia. Suo padre lo
osservava, serio, seduto con i gomiti poggiati al tavolo,
probabilmente sperduto, per la prima volta in vita sua. Anna corse ad
abbracciare quell’uomo finito. Lui no, scosse il capo, senza dir
nulla, uscì dalla porta e prese a correre, spingendo forte sulle
gambe. Spinse finché poteva, finché rimase privo di fiato. Si piegò
con le mani poggiate sulle ginocchia, ansimando. Suo padre sarebbe
morto. Il tumore era incurabile. Non c’era niente da fare. E
adesso, in questa corsa solitaria, cosa poteva fare? Non riusciva più
a mantenere la concentrazione, l’andatura era scomposta. Le gambe
gli pesavano sempre più, e mancavano ancora quasi dieci chilometri
alla fine. Le sue energie si sarebbero consumate inesorabilmente come
il corpo di suo padre? Quel corpo magrissimo, snervato. Il fiero
volto di cemento trasformato in un aquilone di ossa e pelle, senza
che ci fosse alcun vento a sostenerlo. La forza di suo padre si era
velocemente annullata, la sua vitalità spenta. Ben presto non era
più stato capace di reggersi in piedi da solo. Sarebbe successo
anche a lui? Sarebbe stramazzato rovinosamente sulla strada? In
questa corsa come nella vita, un perdente.
Al
trentacinquesimo chilometro era una nave alla deriva. L’andatura
lentissima, il busto sistemato in diagonale rispetto al bacino, la
spalla destra sempre protesa in avanti, mentre il braccio sinistro,
invece di accompagnare l’azione delle gambe, dondolava pesantemente
lungo il fianco, facendosi trasportare come fosse un clandestino.
Improvvisamente sentì un forte senso di nausea. Forse era la volta
buona che si toglieva di dosso quel maledetto gel. Tentò di
assecondare l’impulso, ma fu inutile. Peggiorò solo la situazione.
Per lo sforzo, ora lo stomaco gli faceva un gran male. Rise di se
stesso: non era capace nemmeno di vomitare. Era diventato una
caricatura. Negli ultimi tempi le mansioni più semplici si
trasformavano in disastri. Quando suo padre non era più in grado di
muoversi dal letto, poco prima della fine, lui trascorse alcune sere
a vegliarlo. Tentavano ancora di fargli mangiare qualcosa, ma la
malattia era troppo avanzata. Regolarmente rimetteva tutto quel che
ingeriva. Quella volta non fu diverso; afferrò la padella con
l’intento di svuotarla, ma alzandosi perse la presa e ribaltò
tutto sul letto. Suo padre lo fissò silenziosamente. Quella poca
energia che gli era rimasta, la mise tutta in quello sguardo severo.
Fu il rimprovero più duro che avesse mai ricevuto. Tirò un respiro
profondo nella vana speranza che lo stomaco smettesse di dolergli. I
suoi occhi gli bruciavano terribilmente, ma era il sudore. Era
solamente il sudore.
Fu al
chilometro trentotto che la crisi divenne insostenibile. Si
trascinava avanti, ma non seguiva più una linea retta. La sua vista
era offuscata, ai crampi allo stomaco si erano aggiunti quelli al
retro coscia e ai polpacci. Anche psicologicamente non ce la faceva
più: continuava a ripetersi che era il momento di ritirarsi, che non
valeva la pena di patire tanto per una stupida corsa. Spingeva ancora
le sue povere gambe nella speranza di riprendersi, ma era sfinito,
prosciugato, annichilito. Nemmeno le grida di incitamento che gli
lanciava il pubblico erano di aiuto, al contrario, gli davano
fastidio. Tentò di isolarsi, non funzionò. Le odiava, quelle
maledette scimmie urlatrici, capaci solo di guardare e dimenarsi. Ci
provassero loro a trovarsi in quella situazione. Fece un patto con le
sue gambe: portatemi fino alla fine, e vi prometto che non farò un
solo passo oltre la linea del traguardo. Vi prometto una seduta di
massaggi che vi rimetteranno a nuovo, e almeno una settimana di
riposo. Risposero con un’acuta sinfonia di crampi. Poi, come un
prestigiatore apparso dal nulla, al suo fianco si ripresentò mister
Hard Rock con la sua maglietta gialla. Era stato più lungimirante,
lui. Aveva ridotto il passo per non sfiancarsi troppo presto. Ora lo
stava distaccando inesorabilmente, con regolarità, era già alcune
decine di metri più avanti. Aveva gestito meglio la propria gara,
aveva rispettato il programma che si era fissato. Ecco cosa succede
ad essere troppo impulsivi: si cominciano un milione di cose e non se
ne finisce nessuna. Dove l’aveva sentito dire? Smise di correre e
cominciò a camminare. Le gambe gli tremavano, ogni passo era una
sofferenza. Guardò il suo cronometro: le quattro ore erano appena
trascorse, aveva fallito il suo obiettivo, a che serviva continuare
ancora? Si fermò, appoggiò entrambe le mani a una transenna, con la
testa china e lo sguardo di un uomo sconfitto. Il sudore gocciolava
copioso dalla sua fronte, formando piccole macchie scure sulla
strada. Potevano sembrare anche lacrime. Si domandò se fosse giusto
sfogarsi, in quella situazione. No, non era dignitoso. Rimase fermo
un paio di minuti tentando di trattenere il pianto. In fondo era solo
un altro dei suoi tanti fallimenti; niente laurea, niente carriera,
niente nipotini per il babbo. Cosa poteva importare se finiva o no
quella maledetta maratona? Cosa sarebbe mai cambiato nel tagliare il
traguardo? Non capiva nemmeno perché aveva deciso di partecipare,
nello stato d’animo in cui si trovava. Aveva ragione Anna, avrebbe
fatto meglio a restare a casa, per elaborare il lutto. Non avevano
nemmeno ancora celebrato il funerale. Cosa ci faceva lì?
Tre giorni
prima suo padre aveva alzato il sottilissimo braccio per chiamarlo
vicino al letto. Non aveva quasi più la forza di parlare, ma si
sforzò e gli fece una domanda: “Negli ultimi giorni hai trascorso
molto tempo qui, non ti alleni più per la maratona?”
“Manca
poco alla gara, sto facendo lo scarico. In pratica mi riposo,
recupero le energie.”
“Come
vorrei poter assistere, però temo che non riuscirò a soddisfare la
mia curiosità. Mi sa che sono io quello che deve mollare, questa
volta. Non ce la faccio più. Mi piacerebbe proprio sapere cosa
sceglierai di fare, quando arriverai al quarantesimo chilometro.”
Furono le ultime parole che pronunciò prima di morire, la notte
successiva.
Mentre si
accingeva ad abbandonare il circuito, alzò lo sguardo lungo il
tratto di strada che aveva rinunciato a percorrere. Ed ecco che lo
vide, a non più di trecento metri da lui, a contrassegnare l’ultima
stazione per i rifornimenti, il cartello con sopra quel numero.
Quaranta.
Che cosa
sceglierai di fare al quarantesimo chilometro?
Camminò,
prima piano, poi sempre più velocemente, fino ad arrivare in
corrispondenza del cartello. Lo guardò senza fermarsi, sputò per
terra, strinse i denti e ricominciò a correre verso il traguardo.