sabato 10 gennaio 2015

Il bosco avrà una grande Anima.

Le piante hanno una coscienza?

Monumentale, questo castagno.


Ti svegli la mattina presto, arrivi fino all'angolo più sperduto del comune di Camugnano, ti inerpichi per una stradina all'% di pendenza e alla fine scopri che il museo del bosco che stavi cercando è composto da 1 stanza e mezza, e che la cosa più interessante che contiene è un nido di calabroni. Potresti anche sopportarlo, però ti sei portato dietro un pupazzo perfido che ti scruta ridacchiando e ti ricorda quanto sei coglione, che invece di viaggiare fino al bosco di Poranceto faresti meglio a impiegare il tuo tempo ad altre attività, tipo i balli latino americani, che hanno un più alto tasso di gnocca.
Ma dai, Coso Rosso! Nella vita non esiste solo la gnocca. E poi questo posto non è così male, museo a parte: Guarda questi castagni che ci sono attorno. Quanti anni avranno? Il Coso Rosso russa già.
Mi avvicino a un tizio con il codino, che poi è una guida del Parco dei Laghi di Suviana e Brasimone, Il castagneto è stato messo a dimora da Matilde di Canossa nell'XI° secolo, quindi le piante più vecchie hanno attorno ai 900 anni, sono considerate come monumenti e protette dalla legge. Il tipo si lancia in una divagazione su come la legislazione italiana ed europea si sia evoluta in questo settore, e su come siano distribuiti gli alberi monumentali nella regione; Sto maturando la decisione di accovacciarmi all'interno di un tronco cavo e dormire un po', quando il tizio cambia regime e inizia a parlare della coscienza delle piante.
Coscienza? Svegliati Coso Rosso, questa la devi sentire.
Le piante non crescono a caso, ma si sviluppano nella direzione a loro più favorevole, verso la zona di terreno più ricca di nutrimento o meglio soleggiata, rispondono agli stimoli, come la musica, alla presenza/assenza dell'uomo, quindi sono senzienti.
La guida afferma anche di più: sembra che le piante abbiano un sistema nervoso, un cervello insomma. Solo che è diverso da quello animale, noi possiamo scappare per preservarci, loro no, quindi avrebbero distribuito il sistema nervoso in tanti micro-cervelli costituiti da poche cellule situate all'apice delle radici, in modo che, anche danneggiato, il loro sistema continui a funzionare e possa essere riparato.
Le piante comprendono quello che succede. Non ditelo ai vegetariani però, altrimenti ci muoiono tutti di fame.
Aggiunge ancora: sembra che le radici di diverse piante, intrecciandosi fra loro, possano scambiarsi informazioni.
Difficile dire se sia vero, ma è una idea così deliziosamente poetica, così intensamente magica, che voglio crederci. Una coscienza collettiva, la grande anima del bosco che scorre nel sottosuolo.
Tu, Coso Rosso, ce l'hai una coscienza?
Certo che sì. L'ho messa anch'io sottoterra, da qualche parte. Ma non ricordo dove.

giovedì 1 gennaio 2015

Il Quarantesimo chilometro.


Il quarantesimo chilometro.



Faceva qualche esercizio di stretching, per quanto consentiva l’angusto spazio che aveva a disposizione in mezzo agli altri corridori. Attorno a lui c’era il gran vociare euforico di una folla che si appresta ad una grande impresa. Il clima era splendido, l’aria era fresca, non poteva capitare una giornata migliore. Indossava il pettorale numero 3577, e aveva una gran voglia di partire. Anna, la sua compagna, non era altrettanto entusiasta. “Ma sei sicuro? Vuoi farlo lo stesso, anche dopo quello che è successo?” Gli aveva chiesto con lo sguardo premuroso, prima che entrasse nelle gabbie. Che domande, certo che voleva farlo, ci mancherebbe altro! Si era allenato per mesi, aveva programmato le sue settimane e le sue giornate per arrivare preparato a quell’evento. Avrebbe partecipato a quella maratona, nonostante tutto. Tentò di sgombrare la mente ricontrollando la sua attrezzatura. Il cardiofrequenzimetro funzionava, il cronometro pure, le scorte alimentari erano al loro posto. Si allacciò per l’ennesima volta le scarpe, stringendo per bene. Adesso era concentrato, mancavano pochi minuti alla partenza e fra i partecipanti era calato un silenzio trepidante. Prima di quanto si aspettasse un colpo di cannone diede il via. Fu il boato più potente che avesse mai sentito, o almeno così gli sembrò. Fra le urla festanti del pubblico, l’esodo ebbe inizio, a migliaia si immisero nel percorso in un caotico scambiarsi di posizioni, secondo il ritmo che ognuno voleva dare alla sua gara. Dopo tre o quattro minuti impiegati per farsi largo tra la folla, trovò lo spazio che gli serviva e cominciò a far girare le gambe. Un centinaio di metri davanti a lui ballonzolava la maglietta gialla di un altro concorrente, con la scritta “Hard Rock” sulle spalle. Decise di accodarsi a lui, trovando facile sostenere la cadenza del suo passo. Sorrideva, provava una sensazione bellissima e liberatoria. Non pensava affatto a quello che era successo. Pensava solo a correre.

Al quinto chilometro osservò il suo cronometro. Stava filando a un ritmo più veloce di quel che aveva programmato. Troppo veloce. Temeva di pagarla nel tratto finale, quando le energie servono davvero. Se voleva arrivare al traguardo doveva risparmiarsi, doveva controllare l’impeto, ma non era facile, dopo tutto quella era la sua prima maratona. Chi l’avrebbe mai immaginato? Lui, tutto computer e scrivania, che si faceva quarantadue chilometri al trotto. Ripensò a com’era cominciata quella avventura, dieci mesi prima. Stava facendo la sua solita passeggiata nel parco quella domenica mattina, quando un ragazzo che faceva jogging lo superò saltellando elegantemente. Sarebbe piaciuto anche a lui correre, mantenersi in forma. Sì, doveva assolutamente farlo, e nel momento stesso in cui prendeva questa decisione, si pose anche l’obiettivo di portare a termine una maratona, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lui era fatto così, si faceva rapire dalle sue idee. Quella sera stessa, durante una cena a casa dei genitori, dichiarò la sua intenzione quasi senza prendersi sul serio. Ci scherzarono un po’ su, tra una forchettata di pasta e un boccone di arrosto, finché suo padre, con il suo solito volto di cemento, affermò: “Se ti conosco bene abbastanza, finirai per fermati al quarantesimo chilometro. Inizi un milione di progetti e non ne porti a termine nemmeno uno.”
Suo padre. Quel severo, esigente uomo distante. Non gli aveva mai concesso un riconoscimento in tutta la vita. Un osservatore indifferente. Peggio: un critico incontentabile.
Il giorno successivo diede inizio alle ricerche sui metodi di allenamento e fece la sua prima, breve corsa serale.

Dopo undici chilometri scomparve un piccolo dolore che si era manifestato ai muscoli tibiali. Ora andava tutto bene, la sua corsa era sciolta. I suoi tempi erano ancora troppo veloci e il cardiofrequenzimetro segnava battiti troppo elevati, tuttavia non si sentiva affaticato. Davanti a lui, mister Hard Rock era già in difficoltà, aveva rallentato, la sua maglietta gialla era sempre più vicina. Lo sorpassò in scioltezza, traendone una immensa soddisfazione. Pensò che forse era una di quelle giornate in cui ti riesce tutto bene. Come quella volta che incontrò Anna, la sua Anna. Fu tutto così naturale, quella sera: fu sufficiente uno sguardo per capire. Si avvicinò a lei con la certezza di piacerle, ed era vero. Trovò tutte le parole e gli argomenti giusti, la conquistò. L’affiatamento di quel primo incontro si trasformò in complicità nelle settimane successive, e ben presto divenne amore. Non si erano più lasciati, avevano anche pensato al matrimonio, avevano ipotizzato di avere figli, un giorno. “Chissà come sarebbero felici i nostri genitori di poter fare i nonni.” Gli diceva Anna, sorridendo, ogni volta che ne parlavano. Davvero, sarebbe stato meraviglioso, bisognava solamente aspettare il momento giusto, in un mondo così complicato. Ma il momento giusto per sposarsi non era mai arrivato, men che meno per fare figli. Mai negli ultimi otto anni.

Percorrendo il lungo rettilineo che iniziava al diciannovesimo chilometro si accorse di essere rimasto solo. Non c’era pubblico, nessun concorrente né davanti, né alle spalle. Solo un vigile, in fondo, che controllava che si svolgesse tutto bene in quel tratto fantasma.
Non era certo una novità per lui. La sua azienda lo mandava spesso in viaggio all’estero per fare i controlli di qualità del prodotto, e doveva passare intere settimane da solo, in paesi dove non conosceva nessuno. Per meglio dire: coloro che lo conoscevano, non lo trovavano simpatico. Come può starti simpatico uno che ti fa le pulci tutte le volte che si presenta alla tua porta? Ad ogni modo la solitudine non era una condizione che lo spaventava. Nel silenzio della camera singola dell’albergo di turno, la sera, poteva leggere senza distrazioni. I suoi preferiti erano i romanzieri russi. Tolstoj in particolare. Si sentiva bene anche passeggiando nei centri cittadini stracolmi di persone che non potevano riconoscerlo, amava le vie commerciali, sperimentava le specialità culinarie del luogo. E poi lontano da casa si sentiva di buon umore, come alleggerito da una zavorra mentale. Questo nei primi giorni, poi, trascorsa una settimana, subentrava la nostalgia, forse però sarebbe stata meglio chiamarla in un altro modo: era più l’incombenza di un dovere, il richiamo delle radici. Due anni prima, l’amministratore dell’azienda l’aveva convocato nel suo ufficio: gli aveva fatto i complimenti per il suo lavoro, e gli aveva detto che intendeva proporgli di assumere il ruolo di dirigente aziendale, a capo del settore qualità. Lusinghiero, certo. Ma quanto tempo avrebbe dovuto dedicare al lavoro? Quante responsabilità, quanti pensieri sarebbero derivati da questo avanzamento di carriera? La sua vita ne sarebbe uscita di certo stravolta. Inoltre rischiava di fare il passo più lungo della gamba, di non essere in grado di reggere la pressione. Meglio continuare a fare quel che stava già facendo, era più sicuro. Rifiutò l’offerta, nella certezza di aver fatto la cosa giusta. Non aveva mai raccontato a nessuno di quella scelta, non alla sua famiglia, e neppure ad Anna.
Sfilò davanti al vigile che lo seguiva con il suo sguardo impassibile, alla fine del rettilineo. Dietro la curva che stava affrontando vide il punto di rifornimento, rallentando appena afferrò un bicchiere di acqua e un integratore di sali minerali. Ne aveva davvero bisogno, cominciava a sentire una certa secchezza in fondo alla gola.

La fame lo colse al ventottesimo chilometro. Era normale che fosse così. Come prevedeva il suo programma di gara, si era svegliato tre ore prima della partenza e aveva fatto una colazione abbondante, a base di fette biscottate integrali e miele, senza farsi mancare qualche grammo di prosciutto. Circa cinquecento calorie in carboidrati e una piccola dose di proteine. Dopo il chilometro venti aveva mangiato le maltodestrine in gel, al rifornimento successivo buttò giù una barretta alla frutta, ora era quasi giunto il momento di utilizzare la seconda busta di gel. Durante gli allenamenti aveva testato tutti i gusti esistenti in commercio, ma nonostante i volonterosi tentativi, nessuno era ancora riuscito a rendere quella roba meno disgustosa. Cominciava a sentire le gambe un po’ pesanti, il fiato era buono, sebbene più affannoso di prima, il ritmo era leggermente calato. D’altra parte era già ben oltre la metà della gara. Aveva immaginato di essere più stanco, a questo punto. Si persuase che avrebbe potuto tagliare il traguardo in meno di quattro ore senza tanti problemi. Niente male per una matricola. Una matricola, già. Gli tornarono in mente i primi tempi alla facoltà di statistica, quando era convinto che sarebbe riuscito a laurearsi in corso. In effetti era partito bene, il primo anno aveva fatto il percorso netto: trenta in tutti gli esami. Poi aveva perso l’entusiasmo, non rispettava più il programma di studi. Aveva completato gli esami dopo sette anni, ma non aveva mai finito di preparare la tesi. Aveva piantato lì e non sapeva nemmeno lui perché. Si vede che era destino. Guardò a terra, i suoi piedi si alternavano sull’asfalto, a ogni passo la fatica cresceva, e cresceva la consapevolezza che suo padre aveva ragione. Lui era uno di quegli uomini che mollano sempre.

Al trentatreesimo chilometro lo stomaco lo tradì. Il gel ballava su e giù come una pallina all’interno di un flipper. I tentativi di digestione si traducevano in rigurgiti acidi e gli rendevano difficile anche una respirazione regolare. Doveva saperlo che sarebbe stato lo stomaco. Maledetto, maledetto stomaco, voleva portagli via anche la maratona? Non bastava che si fosse già preso suo padre? Suo padre, cinque mesi prima, aveva cominciato ad avere problemi di digestione e dolori all’addome sempre più frequenti e più forti. Al primo esame lo trovarono: un tumore maligno, aggressivo, rabbioso. Sua madre piangeva, quando gli diede la notizia. Suo padre lo osservava, serio, seduto con i gomiti poggiati al tavolo, probabilmente sperduto, per la prima volta in vita sua. Anna corse ad abbracciare quell’uomo finito. Lui no, scosse il capo, senza dir nulla, uscì dalla porta e prese a correre, spingendo forte sulle gambe. Spinse finché poteva, finché rimase privo di fiato. Si piegò con le mani poggiate sulle ginocchia, ansimando. Suo padre sarebbe morto. Il tumore era incurabile. Non c’era niente da fare. E adesso, in questa corsa solitaria, cosa poteva fare? Non riusciva più a mantenere la concentrazione, l’andatura era scomposta. Le gambe gli pesavano sempre più, e mancavano ancora quasi dieci chilometri alla fine. Le sue energie si sarebbero consumate inesorabilmente come il corpo di suo padre? Quel corpo magrissimo, snervato. Il fiero volto di cemento trasformato in un aquilone di ossa e pelle, senza che ci fosse alcun vento a sostenerlo. La forza di suo padre si era velocemente annullata, la sua vitalità spenta. Ben presto non era più stato capace di reggersi in piedi da solo. Sarebbe successo anche a lui? Sarebbe stramazzato rovinosamente sulla strada? In questa corsa come nella vita, un perdente.

Al trentacinquesimo chilometro era una nave alla deriva. L’andatura lentissima, il busto sistemato in diagonale rispetto al bacino, la spalla destra sempre protesa in avanti, mentre il braccio sinistro, invece di accompagnare l’azione delle gambe, dondolava pesantemente lungo il fianco, facendosi trasportare come fosse un clandestino. Improvvisamente sentì un forte senso di nausea. Forse era la volta buona che si toglieva di dosso quel maledetto gel. Tentò di assecondare l’impulso, ma fu inutile. Peggiorò solo la situazione. Per lo sforzo, ora lo stomaco gli faceva un gran male. Rise di se stesso: non era capace nemmeno di vomitare. Era diventato una caricatura. Negli ultimi tempi le mansioni più semplici si trasformavano in disastri. Quando suo padre non era più in grado di muoversi dal letto, poco prima della fine, lui trascorse alcune sere a vegliarlo. Tentavano ancora di fargli mangiare qualcosa, ma la malattia era troppo avanzata. Regolarmente rimetteva tutto quel che ingeriva. Quella volta non fu diverso; afferrò la padella con l’intento di svuotarla, ma alzandosi perse la presa e ribaltò tutto sul letto. Suo padre lo fissò silenziosamente. Quella poca energia che gli era rimasta, la mise tutta in quello sguardo severo. Fu il rimprovero più duro che avesse mai ricevuto. Tirò un respiro profondo nella vana speranza che lo stomaco smettesse di dolergli. I suoi occhi gli bruciavano terribilmente, ma era il sudore. Era solamente il sudore.

Fu al chilometro trentotto che la crisi divenne insostenibile. Si trascinava avanti, ma non seguiva più una linea retta. La sua vista era offuscata, ai crampi allo stomaco si erano aggiunti quelli al retro coscia e ai polpacci. Anche psicologicamente non ce la faceva più: continuava a ripetersi che era il momento di ritirarsi, che non valeva la pena di patire tanto per una stupida corsa. Spingeva ancora le sue povere gambe nella speranza di riprendersi, ma era sfinito, prosciugato, annichilito. Nemmeno le grida di incitamento che gli lanciava il pubblico erano di aiuto, al contrario, gli davano fastidio. Tentò di isolarsi, non funzionò. Le odiava, quelle maledette scimmie urlatrici, capaci solo di guardare e dimenarsi. Ci provassero loro a trovarsi in quella situazione. Fece un patto con le sue gambe: portatemi fino alla fine, e vi prometto che non farò un solo passo oltre la linea del traguardo. Vi prometto una seduta di massaggi che vi rimetteranno a nuovo, e almeno una settimana di riposo. Risposero con un’acuta sinfonia di crampi. Poi, come un prestigiatore apparso dal nulla, al suo fianco si ripresentò mister Hard Rock con la sua maglietta gialla. Era stato più lungimirante, lui. Aveva ridotto il passo per non sfiancarsi troppo presto. Ora lo stava distaccando inesorabilmente, con regolarità, era già alcune decine di metri più avanti. Aveva gestito meglio la propria gara, aveva rispettato il programma che si era fissato. Ecco cosa succede ad essere troppo impulsivi: si cominciano un milione di cose e non se ne finisce nessuna. Dove l’aveva sentito dire? Smise di correre e cominciò a camminare. Le gambe gli tremavano, ogni passo era una sofferenza. Guardò il suo cronometro: le quattro ore erano appena trascorse, aveva fallito il suo obiettivo, a che serviva continuare ancora? Si fermò, appoggiò entrambe le mani a una transenna, con la testa china e lo sguardo di un uomo sconfitto. Il sudore gocciolava copioso dalla sua fronte, formando piccole macchie scure sulla strada. Potevano sembrare anche lacrime. Si domandò se fosse giusto sfogarsi, in quella situazione. No, non era dignitoso. Rimase fermo un paio di minuti tentando di trattenere il pianto. In fondo era solo un altro dei suoi tanti fallimenti; niente laurea, niente carriera, niente nipotini per il babbo. Cosa poteva importare se finiva o no quella maledetta maratona? Cosa sarebbe mai cambiato nel tagliare il traguardo? Non capiva nemmeno perché aveva deciso di partecipare, nello stato d’animo in cui si trovava. Aveva ragione Anna, avrebbe fatto meglio a restare a casa, per elaborare il lutto. Non avevano nemmeno ancora celebrato il funerale. Cosa ci faceva lì?
Tre giorni prima suo padre aveva alzato il sottilissimo braccio per chiamarlo vicino al letto. Non aveva quasi più la forza di parlare, ma si sforzò e gli fece una domanda: “Negli ultimi giorni hai trascorso molto tempo qui, non ti alleni più per la maratona?”
Manca poco alla gara, sto facendo lo scarico. In pratica mi riposo, recupero le energie.”
Come vorrei poter assistere, però temo che non riuscirò a soddisfare la mia curiosità. Mi sa che sono io quello che deve mollare, questa volta. Non ce la faccio più. Mi piacerebbe proprio sapere cosa sceglierai di fare, quando arriverai al quarantesimo chilometro.” Furono le ultime parole che pronunciò prima di morire, la notte successiva.
Mentre si accingeva ad abbandonare il circuito, alzò lo sguardo lungo il tratto di strada che aveva rinunciato a percorrere. Ed ecco che lo vide, a non più di trecento metri da lui, a contrassegnare l’ultima stazione per i rifornimenti, il cartello con sopra quel numero.
Quaranta.
Che cosa sceglierai di fare al quarantesimo chilometro?

Camminò, prima piano, poi sempre più velocemente, fino ad arrivare in corrispondenza del cartello. Lo guardò senza fermarsi, sputò per terra, strinse i denti e ricominciò a correre verso il traguardo.