venerdì 12 ottobre 2012

La spesa di Nico Panzai.


La spesa di Nico Panzai.



Non gli erano mai piaciuti i supermercati. Tutta quella folla vociante, quell’accalcarsi di persone che facevano incetta di scatolette, sughi pronti, piatti precotti, quell’incrociarsi di carrelli che a volte andavano troppo veloci e rischiavano di urtarlo, altre volte si ammassavano lungo le corsie impedendogli il passaggio, tutta quella confusione lo rendeva nervoso. E Nico Panzai amava la tranquillità. 
No, il commercio di massa non faceva per lui, che era abituato a prendersi tutto il tempo occorrente per selezionare gli ingredienti migliori, necessari per la sua grande passione: la cucina. Quel giorno si sentiva particolarmente esigente vista l’eccezionalità della serata che gli si prospettava, perciò decise di prendersela comoda, fare una spesa di qualità e nel frattempo godersi ogni passo che lo avvicinava alla realizzazione del suo proposito. Diresse la sua automobile verso la campagna e guidò fino all’abitazione di un contadino dal quale si serviva spesso. Selezionò due cipolle e due carote, chiese un poco di alloro e di timo freschi per il piatto forte, e due patate, queste ultime le avrebbe semplicemente lessate, come contorno. Si fece consegnare otto mele, le migliori disponibili, che intendeva utilizzare per preparare una Tarte Tatin, poi ripartì.  
Era la sua auto una Aston Martin DB4 Vantage Convertible del 1961, con la quale si muoveva placidamente nelle giornate di sole dopo averne abbassato la capote, in modo da potersi abbronzare e contemplare più compiutamente la natura e il cielo azzurro. Di auto come quella ne esistono solo settanta esemplari e lui aveva voluto averne una, incurante del prezzo. D’altronde i suoi genitori gli avevano lasciato in eredità una fortuna enorme, dopo averlo abituato a vivere nello stile e nel lusso. Abitudine che egli una volta raggiunta l’età adulta aveva elevato a livello di arte: non considerava nemmeno l’idea di entrare in contatto con qualcosa che non fosse espressione dell’eccellenza. Solamente l’orologio più prestigioso, unicamente i tessuti più pregiati, solo il design più raffinato, nient’altro che gli alberghi più rinomati. Era divenentato un vero e proprio sibarita.
Giunse alla seconda tappa del suo viaggio, un’enoteca ricavata all’interno di un castello medievale dove aveva fatto arrivare una bottiglia di Chateauneuf du Pape da usare per la cottura della portata principale: una Daube Provencale. Prese la bottiglia e la insaccò in fretta. Prestò più attenzione ad un altro acquisto che lo intrigava maggiormente: uno Chateau Cheval Blanc del 1998 che avrebbe bevuto in un ampio calice dopo averlo fatto respirare nel suo prezioso decanter soffiato a bocca. Esaminò con soddisfazione l’etichetta, già pregustando il sapore corposo di quel vino eccezionale, perfetto per esaltare il gusto del suo piatto.
Improvvisamente gli sovvenne che non aveva ancora scelto a quale compositore affidare la colonna sonora per quella serata, valutò fra sé e sé alcune opzioni e rimase un po’ di tempo indeciso fra Berlioz e Messiaen, per poi risolversi in favore del secondo.
La sua passione per la musica classica era grande, nonostante fosse nata in lui quando aveva già trent’anni. Durante le lunghe nottate solitarie che passava nel suo enorme, vuoto palazzo, quando, mentre provava ad addormentarsi, ascoltava i dischi che collezionava la sua povera madre. Dopo pochi giorni si accorse che le arie di Mozart e di Puccini non gli provocavano nessuna sonnolenza, anzi, lo mettevano in uno stato di euforia e in certi casi addirittura di esaltazione. Così cominciò ad ascoltar musica di giorno, e inspiegabilmente riuscì a riposarsi di notte. E poi quelle musiche gli ricordavano la sua mamma e i momenti felici che avevano passato assieme; gli permettevano di dimenticare per qualche ora l’iniqua morte che la povera donna aveva dovuto subire, e la terrificante immagine rimasta inguaribilmente marchiata nella sua mente, da bambino, quando aveva trovato la sua genitrice smembrata a colpi di spada dal padre, impazzito di gelosia, il quale prima di spararsi un colpo in testa lo guardò e gli disse: “Ricordati figliolo, le donne sono bestie, meno di bestie”.
Anche in quel momento, mentre guidava con un gomito poggiato alla portiera, fischiettava un’aria del Nabucco e così sopiva il ricordo. 
Prima di fare rientro a casa, era passato al laboratorio di un vecchio vasaio che lavorava ancora con il tornio a pedale, qui ritirò una cocotte che aveva ordinato tre settimane prima. 
Eh, sì. Nico Panzai, quando preparava una cena, curava ogni dettaglio, soprattutto andava orgoglioso della sua stoviglieria: tutti pezzi unici, rigorosamente artigianali e adeguati alla pietanza che sarebbe stata servita. Ognuno di quei recipienti veniva utilizzato una volta sola, per poi essere riposto in una elegante vetrina assieme alla ricetta che Nico aveva preparato, scritta da lui stesso su di una pergamena di vitello, con grafia curata, mediante l’uso di penna d’oca e calamaio. Quella sera avrebbe aggiunto il ventiquattresimo pezzo alla sua collezione, ma prima, naturalmente, c’erano molte cose da fare: apparecchiare la tavola secondo i dettami del Bon Ton, stappare il vino, pulire le verdure, e scongelare la carne.
Scese nella sua ampia cantina e prelevò dal congelatore un sacchetto di carne che aveva messo lì già da tempo, e quindi doveva essersi frollato a sufficienza. Mentre risaliva le scale lo colse un po’ di preoccupazione: sarebbe riuscita bene la serata? Era la prima volta che si cimentava nella cucina transalpina e temeva che la sua inesperienza rovinasse tutto il lavoro che aveva fatto in precedenza.
Ma d’altra parte non c’era alternativa, era un doveroso omaggio che andava reso alla giovane e gentile ragazza francese che il mese precedente lui aveva ucciso conosciuto durante le sue vacanze a Saint Jean Cap Ferrat. Era una francesina morbida, che aveva ucciso, macellato e tagliato a pezzi, senza fatica, con la spada di suo padre. E che adesso stava per diventare una squisita pietanza.

sabato 29 settembre 2012

La bionda del Balboni. Seconda parte.


LA BIONDA DEL BALBONI.


L'inizio del racconto, qui: Prima parte.



Il Capitano Zamboni sfogliava un fascicolo sulle birre artigianali che aveva trovato su internet, quando entrò nella stanza Stefania Abbondanti chiedendo permesso. Egli le sorrise dicendole: “Buongiorno Maresciallo. Sapeva che la produzione domestica di birra è un fenomeno in grande crescita? E che in Italia in particolare si è diffusa la birra di castagne? E che esistono diversi metodi per produrla?”
“Farò tesoro di queste preziosissime nozioni. Mi duole distoglierla dalla sua passione per le bevande alcoliche, ma sono arrivati i resoconti sul contenuto del computer della vittima.”
“Ci sono indizi sulla donna che cerchiamo?” Domandò l’uomo allungando la mano verso l’incartamento, per poi cominciare a leggerlo.
“Su di lei e su altre 168. Nomi, cognomi, indirizzi, foto e filmati. Ci vorrà un po’ per esaminare tutto quel materiale, ci ho messo più di mezz’ora a ispezionare un solo profilo.”
“Immagino che lei abbia guardato tutte le foto e l’intero filmato, meticolosa com’è.”
“Beh, sì… io… non volevo che mi sfuggisse nessuna… ecco, nessuna…”
“… di quelle preziosissime nozioni. Ho capito, Abbondanti.  Senta, vedo che la vittima usava raramente la posta elettronica. I messaggi sono quasi tutti della stessa persona.”
“Un certo Vanes Guidi con il quale si scambiava informazioni e pareri sulla birrificazione. Abita a Minerbio.”
“Birra! Ottimo. Nel pomeriggio andremo a far visita a questo tizio. Metta un paio di ragazzi al lavoro su quei nominativi, voglio sapere chi è la donna misteriosa entro domani.

“Se voleva farsi una birra, Signore, poteva anche venire da solo, con tutto il lavoro che c’è da fare.”
Zamboni e la Abbondanti erano davanti al cancello della bella villetta con giardino dove abitava Vanes Guidi. Il Capitano suonò il campanello e sorrise: “Non vorrà che mi metta alla guida dopo aver bevuto, vero? Inoltre in sua presenza il genere maschile è più propenso a parlare.”
“Capitano!” esclamò la ragazza tra l’imbarazzo e il compiacimento.
Intanto Vanes Guidi era uscito da casa con indosso solo un paio di pantaloni blu alla zuava e ciabatte di plastica ai piedi, lasciando scoperta la sua grossa pancia. Aprì il cancello e con voce flebile disse: “Buongiorno, è successo qualcosa? I Carabinieri non vengono mai da queste parti.”
“Sì, hanno ucciso Luca Balboni. Lo conosceva?” Domandò Zamboni.
“Sì che... Oddio siete qui per arrestarmi?”
“Vogliamo chiederle qualche informazione. E magari assaggiare la sua birra.”
“Ah, allora sapete già che avevamo questa passione in comune. Entrate, il mio laboratorio è lì, nel garage.”
Il locale era incredibilmente ordinato, con le piastrelle in ceramica a terra e sulle pareti, le attrezzature erano modernissime, su un bancone di granito erano ordinati dei piccoli cestini pieni di malto e luppolo di diversa tipologia.
“Questo sì che è un bel laboratorio! Decisamente meglio di quello di Balboni.”
Ammise Stefania Abbondanti guardandosi attorno.
“Grazie signorina. Questa è la mia grande passione, non ho famiglia e così impiego qui i miei risparmi. Posso offrirle una birra? Per una bella ragazza come lei stapperò la mia pils migliore.”
“Il Maresciallo è in servizio, non può bere.” Intervenne Zamboni. “Stappi quella bottiglia per me.”
Una volta che ebbe assaggiato la bevanda, dichiarò: “Ottima! Meglio di quella del suo defunto amico.”
“Lei ha assaggiato la bionda del Balboni? Oh, mi fa molto piacere sentire il suo giudizio, in effetti ritengo che la passione che metto nel creare le mie birre si senta. Per fare questa ho usato tre tipi di luppolo che arrivano da tre continenti.”
“Complimenti. Ma mi dica, quando ha incontrato la vittima l’ultima volta?”
“Ci siamo conosciuti a Rimini, un paio d’anni fa, in occasione di una fiera sui micro birrifici, poi ci siamo solo scritti, non avevo nemmeno il suo numero di telefono. Gli ho chiesto di incontrarci per parlare un po’ del nostro hobby, ma era sempre impegnato.”
“Cosa sa della vita sentimentale del Balboni?”
“Niente. Il nostro rapporto non è mai andato oltre la birra. Pensa che sia stato un delitto passionale?”
Il telefono del Capitano suonò. Rispose mentre Vanes Guidi tentava senza successo di convincere la Abbondanti ad accettare alcune bottiglie in regalo, riattaccò e disse: “Andiamo, Maresciallo. La donna che stavamo cercando si è presentata in caserma.”

“Mio marito è scomparso da due giorni. Aveva scoperto il mio adulterio con quel ragazzo che è stato ucciso, Luca Balboni. Ha lasciato sul tavolo questo biglietto.”
Il Capitano lo lesse: Mi hai tradito. È mio diritto vendicarmi. Addio. Guardò bene l’attraente signora Neri e le domandò: “Abbiamo trovato un reggiseno rosa sulla scena del delitto. Credo che sia il suo. Ha qualcosa da raccontarmi?”
La donna sospirò. “Ero andata da Luca durante la pausa pranzo, in bicicletta: lavoro a un paio di chilometri da casa sua. Stavamo… coccolandoci, quando abbiamo sentito il rumore di un’auto che arrivava. Mi sono rivestita in fretta e sono uscita dal retro del magazzino appena in tempo, ho ripreso la mia bicicletta e sono tornata al lavoro curando di non farmi vedere. Credevo fosse la ragazza di Luca, invece era mio marito.”
“L’ha visto entrare nel magazzino?”
“No, ma quando sono tornata a casa c’era questo biglietto, e stamattina ho letto sul giornale che avevano ammazzato…” La donna non riuscì a continuare, gli occhi velati di pianto.
“Grazie signora. Stasera dovrà dormire in albergo, per sicurezza, finché non ritroviamo suo marito.”

“Buongiorno Abbondanti, ha preso il caffè?”
“Non ancora Capitano. Però abbiamo rintracciato il Neri: il suo telepass ha registrato l’ingresso a Bologna e l’uscita al confine con la Svizzera nella mattinata.”
“È fuggito all’estero?”
“Non credo che sia scappato: era già fuori dall'Italia al momento del delitto, dai movimenti della carta di credito sembra che si trovasse in una casa di appuntamenti di Lugano.”
“Quello è il suo modo di vendicarsi della moglie. Ed è anche un alibi di ferro.” Affermò serafico Zamboni. “Impronte digitali?”
“Ci sono, belle nitide, ma non sappiamo a chi appartengono.”
“Forse io lo so.” Rifletté Zamboni, e incaricò una pattuglia di portagli il suo uomo.
Circa un’ora più tardi entrò nell’ufficio uno sconvolto Vanes Guidi. “Perché sono qui? Per quale motivo mi avete fatto prelevare da casa?”
“Ho scoperto che ci sono diversi metodi per produrre la birra. Il metodo all grain prevede che si utilizzino solo malto e luppolo in grani.” Il Capitano poggiò il mento sulla mano sinistra, il capo un po’ reclinato e un sorriso stanco. “E invece Luca Balboni usava l’estratto. È questo che l’ha fatta arrabbiare?”
“Non so di cosa parla. Io non so niente.” Guidi, seduto di fronte al carabiniere, guardava fisso verso il basso. 
Zamboni prese la busta con l’arma del delitto. “Ieri Lei mi ha chiesto se avevo assaggiato La Bionda del Balboni: la vittima aveva tenuto segreto questo nome fino alla mattina dell’omicidio, per fare una sorpresa alla sua compagna. Lei non poteva conoscere questo nome, a meno che non fosse l’assassino.”
“Non sono stato io.”
“Quindi quando confronteremo le impronte digitali sulla bottiglia con le sue…?”
Guidi si afflosciò sulla sedia, chiuse gli occhi. “Ero andato a fargli visita senza avvisarlo, per parlare della birra, vedere il suo laboratorio. In due anni non aveva mai trovato tempo per me, e ci credo, stava sempre a correre dietro a qualche sottana. Quando sono arrivato ero contentissimo, sono entrato nel magazzino per fargli una sorpresa e davvero glie l’ho fatta: ho visto una donna mezza svestita, proprio mentre si chiudeva la porta alle spalle. E lui figurarsi, nemmeno una piega, si è tirato su la zip dicendo: Ma sei tu, Guidi. Mi hai fatto prendere un colpo, pensavo fosse la mia tipa. Come stai? Sempre impegnato a farti delle seghe?  Che sfrontato! Aveva una ragazza e un’amante. Invece io le donne le vedo solo da lontano. Già ero piuttosto contrariato dal vedere quel misero birrificio allestito all’interno di un deposito di oggetti sconci, poi mi ha offerto questa bottiglia. Ti concedo un grande onore, sei il primo a bere la Bionda del Balboni. Quando ho visto che sull’etichetta c’era scritto “all grain”, gli ho spiegato che non puoi scriverlo se usi l’estratto di malto. È sbagliato. È un metodo diverso. Mi sono innervosito, ho preso una lattina di estratto e l’ho lanciata via. E quel bastardo si è messo a ridere, capisce? Tipo, tu devi prendere la vita più alla leggera. Rilassati, fatti qualche scopata in più. Se proprio ti va così male con le donne, prima che tu vada via ti regalo qualche aggeggino dei miei.  Ho perso la testa, ho frantumato la bottiglia e gli sono saltato addosso. L’ho ammazzato. Se lo meritava. E poi la sua birra faceva schifo.”


Un'altra indagine del Capitano Zamboni: Purificazione.

giovedì 27 settembre 2012

La bionda del Balboni. Prima parte.



LA BIONDA DEL BALBONI.



“L’hanno già portato via?” Domandò il Capitano Bruno Zamboni al suo Maresciallo preferito, l’avvenente Stefania Abbondanti.
“Sissignore, ho verificato personalmente che il corpo fosse rimosso prima del suo arrivo, anche perché l’ultima volta è toccato a me pulire.” Rispose lei in tono di rimprovero.
“Cosa vuole che le dica, Maresciallo…” Disse Zamboni allargando le braccia e il sorriso. “Sono facilmente impressionabile, il mio stomaco non regge alla vista di certi spettacoli. Entriamo. Chi è la vittima?”
“Luca Balboni, di anni trentatre, titolare della Baldur srl. È stato ritrovato ieri sera dalla sua compagna.”
Il delitto era avvenuto in un casolare isolato, nelle campagne bolognesi. Era improbabile che qualche testimone avesse visto o sentito qualcosa.
Stefania Abbondanti si apprestava già ad aprire la porta del magazzino dove si era compiuto l’omicidio, quando un pensiero le bloccò la mano: “Aspetti un momento, Capitano. Lì dentro è pieno di sangue, è sicuro di voler entrare?”
“Oh, tranquilla, il sangue non mi fa nessun effetto. Sono i cadaveri che…”
“È sicuro? Non mi vomiterà sulle scarpe?”
Per tutta risposta il Capitano afferrò la maniglia ed entrò. Il magazzino era ricolmo di scatole di varie dimensioni accatastate una sull’altra, fatta eccezione per un angolo in fondo all’edificio, dove era visibile una sequenza di serbatoi e alambicchi.
Zamboni iniziò ad armeggiare con le scatole e fece per aprirne una.  “Cosa c’è qui dentro?”
“Probabilmente sono vibratori, Signore. La società del Balboni si occupa di commercio elettronico di articoli erotici.”
“Si sbaglia Maresciallo, qui c’è una bella bambola gonfiabile.” Replicò il Capitano dispiegando l’oggetto, e dopo aver osservato bene aggiunse: “Ha un mucchio di buchi! Mi chiedo come possa stare gonfia.” Aprì un’altra scatola e ne estrasse una bustina contenente una specie di anello di plastica. “E questo? È talmente brutto che non lo metterebbe al dito nemmeno un rockabilly.”
“Quello non si mette al dito, Signore.” Intervenne Stefania con un certo imbarazzo.
“Maresciallo, lei è davvero molto preparata sull’argomento, complimenti.” Il sorriso di Zamboni si aprì connotando la sua tipica faccia da schiaffi.
“Io… mi sono documentata nell’interesse dell’indagine!” Il rossore di Stefania Abbondanti aveva raggiunto un’intensità al limite dello spettro visivo.
“E quel laboratorio laggiù? Produceva droga?”
“No, era un domozimurgo.”
“Si è mangiata lo Zanichelli a colazione, Abbondanti? Traduca.”
“Produceva birra in casa. È stato ucciso vicino alle attrezzature, come avrà già intuito da tutto quel sangue rappreso che c’è a terra.”
“Birra! Andiamo a vedere, c’è anche un frigorifero lì vicino.” Zanardi raggiunse l’angolo che gli interessava e spalancò il refrigeratore. “Ecco, ci sono delle bottiglie.” Ne prese una e lesse l’etichetta: “La Bionda del Balboni. All grain 2012.” Il carabiniere estrasse dalla tasca il suo mazzo di chiavi e lo utilizzò per stappare la bottiglia. “Chissà, magari l’hanno ammazzato perché la sua birra faceva schifo.” Disse il Capitano portando la bottiglia alla bocca, e dopo averne trangugiato un sorso continuò: “No. È buona.”
“Capitano, le ricordo che siamo in servizio.” Intervenne severa Stefania.
“Mi sto solamente… come ha detto lei? Documentando nell’interesse dell’indagine. Ed è sempre meglio la prova pratica della conoscenza teorica, giusto?”
“Giusto signore! … Cioè, non che io abbia mai provato uno di quegli anelli… non mi fraintenda… ecco…”
“Ho capito, Abbondanti. Domani mattina voglio parlare con la compagna e con i soci in affari della vittima. Mi prepari i dossier su di loro.”

In caserma, la  mattina seguente, Zamboni controllava i reperti.
“Allora, l’assassino ha rotto questa bottiglia di birra e l’ha usata per sgozzare la vittima.” Rilevò osservando il contenitore della Bionda del Balboni frantumato e sporco di sangue. “Un accesso di collera, una violenza improvvisa. O forse qualcuno sorpreso a rubare. Manca qualcosa dal magazzino?”
“No Signore. Nemmeno in casa.” Rispose la Abbondanti.
Il Capitano analizzò poi una lattina.  “Estratto di malto. Lo usava per fabbricare la birra, perché è fra i reperti?”
“L’abbiamo trovata piuttosto lontana dal laboratorio. Penso che sia rotolata via nella colluttazione.”
“Questi fogli invece?”
“I bilanci della società e gli estratti conto bancari. A quanto pare quel tipo di merce ha un florido mercato.” Affermò Stefania guardando il pavimento.
“Allora non è stato un creditore arrabbiato.” Zamboni lanciò un’occhiata maliziosa al reggiseno rosa che si trovava imbustato sul suo tavolo. “A questo punto, credo che dovremmo concentrarci sull’ipotesi di un delitto passionale.”
“Ma che intuito, Signore…” Disse Stefania in tono canzonatorio, ben sapendo che il Capitano aveva il vezzo di esaminare tutte le piste improbabili, prima di arrivare a quella più ovvia. “Era sotto un bancale, nel magazzino, ma come può vedere non è impolverato. Non si trovava lì da molto tempo.”
“Dobbiamo assolutamente trovare la proprietaria di questo reggiseno. A occhio direi che è una terza misura.” Zamboni squadrò la Abbondanti, indossò la sua faccia da schiaffi e continuò: “Troppo piccolo per lei, Maresciallo. Possiamo depennarla dall’elenco dei sospettati.”
La giovane donna si voltò e uscendo in fretta dalla stanza, con voce stridula, disse: “Abbiamo due persone da interrogare!”


“Lei è Maria Luisa Babini?” Zamboni sedeva di fronte alla compagna dell’uomo assassinato.
“Sì.” Era una ragazza poco meno che trentenne, bella, con lunghi capelli biondi e una grande attitudine ad indossare il tailleur.
“Le faccio le mie condoglianze, deve essere doloroso.”
“È stato traumatizzante. Il corpo di Luca era così bianco. Aveva gli occhi spenti, come quelli del pesce quando non è abbastanza fresco e…  Ma si sente male?”
In effetti la descrizione del cadavere era bastata a provocare il voltastomaco al Capitano, che ora sembrava più morto che vivo. Il Carabiniere prese un respiro profondo poi fece gesto  alla donna di continuare.
“Una visione terribile, ancora non mi sono ripresa. In quanto al dolore, devo essere sincera: io e Luca ci frequentavamo da sole cinque settimane. Quella era la prima volta che andavo a casa sua.”
“Avevate un appuntamento?”
“Sì, mi aveva fatto una bella sorpresa. Fin dalla nostra prima uscita insieme, i suoi amici avevano cominciato a chiamarmi la bionda del Balboni. Quella mattina mi ha telefonato e mi ha invitata a cena a casa sua, dicendomi che aveva dedicato la sua birra a me, che aveva fatto stampare delle etichette personalizzate e desiderava che io fossi la prima a saperlo. Sono arrivata verso le otto, Luca non rispondeva al campanello, così sono andata a cercarlo nel magazzino, mi aveva raccontato che era lì che produceva la sua birra, e l’ho trovato. Morto.”
“Chi frequentava il Balboni prima di lei?”
“Non saprei dirlo. Era single quando l’ho conosciuto, e non mi ha mai parlato delle sue precedenti fidanzate. D'altronde non ho alcun dubbio che Luca avesse molto successo con le donne. Ci sapeva fare.”

“Sono Andrea Durante, il socio di Balboni.” Il ragazzo aveva ancora un’aria da studente universitario, gli occhiali con la montatura spessa, una maglietta stampata con il volto di Steve Jobs e un paio di jeans.
Si accomodi. Immagino che per lei sia stata una grave perdita, quella del suo socio.” Disse Zamboni scartabellando il dossier sull’uomo.
“È vero, e non solo per gli affari. Luca ha avuto questa idea imprenditoriale e mi ha chiesto di farne parte, dicendo che le mie capacità erano indispensabili. Io non sapevo nemmeno di averle queste capacità: mi ero appena laureato. Ha visto il mio potenziale, ha avuto fiducia in me, lo consideravo un amico.”
“Di che cosa si occupa lei?”
“Ho creato la piattaforma informatica per il negozio on-line e mi sono occupato dell’indicizzazione del sito. Ho creato un software per la contabilità e la logistica, insomma, tutta la parte organizzativa.”
“Balboni che faceva?”
“Si occupava del catalogo. Selezionava gli articoli da mettere in vendita: aveva una grande sensibilità per questo tipo di cose, al contrario di me.”
“Sensibilità?”
“Per essere più chiari: Luca aveva poche inibizioni, il sesso era la sua più grande passione, assieme alla birra. Un binomio pericoloso.”
“Letale.” Affermò Zamboni alzando lo sguardo. “Mi dica, è a conoscenza di qualche situazione che potrebbe aver messo in pericolo il suo socio?”
“Sì. Luca si vantava spesso delle sue conquiste, persino con troppa dovizia di particolari. Due settimane fa mi ha parlato di certi incontri con una donna sposata, era intrigato dal fatto che doveva fare tutto senza essere scoperto né da Maria Luisa né dal marito della donna, a suo dire gelosissimo. Purtroppo non so chi fosse. Ma se dovessi scommettere…”

continua...


Un'altra indagine del Capitano Zamboni: Purificazione

sabato 22 settembre 2012

"Glock" di Francesco Ravioli



GLOCK

Racconto 3° classificato al concorso Giallo Miele 2012



1.
Ho preso la padella e con il mestolo di legno ho messo il fricandò nel piatto fondo. Il profumo dei peperoni ha dato una scossa al mio torpore. Prima di versare il contenuto nel piatto, ho letto il nomedel fiore che vi è disegnato: Ophrys speculum, un’orchidea. Per chi non lo sapesse le orchidee non sono un fiore, ma una filosofia. Io non sono né un fiore e tantomeno un filosofo invece, per cui non riesco a coglierne il significato metafisico. Le rispetto, per motivi che non riguardano l’aspetto puramente estetico o legato alla difficoltà nella coltura, ma non me ne intendo. So per sentito dire tra l’altro  che  vengono utilizzate per scopi terapeutici, come emolliente consigliato nelle diarree infantili. Perché lo so?, chi lo sa…bisogna pur passare il tempo e nella nostra era moderna il personal computer ti dà la possibilità di farti una cultura sommaria sulla destra e sulla manca, sapendo un poco di tutto  e un cazzo di niente. Forse lo so perché di riffa o di raffa penso che la diarrea sia lo stato mentale che al momento mi accompagna, in questo luglio afoso. Sono un killer, professionista. Come tutte le persone di questo mondo ho una testa con capelli sopra, non comune a tutte le persone del mondo. Intendo non che la mia testa sia sopra la media di dimensione o con un quoziente intellettivo  alla Sharon Stone  (che  pare  lo abbia alto) ma che ho i capelli. Ciò non appartiene alla maggioranza degli uomini della mia età. Sono un killer, professionista, con il vizio di pensare che avere i capelli vuol dire avere le storia, per un uomo. La propria storia, a portata di 
specchio. Perché solo grazie ai capelli  è possibile il confronto tra quando tutto ti andava per il verso giusto, ed erano corvini come il sedere di un cavallo da dressage, e quando tutto ti va di traverso come un uovo sodo, e sono bianchi come un martini. Bianco come il mio colletto, da impiegato. Ho un’ossessione, posso dire che non sono le orchidee o la peperonata, ma il fatto che non posseggo la fortuna di quelli che riescono a fare il proprio amato mestiere tutte le mattine. Non ho la fortuna di potere pianificare le ferie o le festività soppresse, il natale e il cucù, che non vuol dire nulla se non la scelta di prendersi un permesso per farsi i fatti propri. Perché io non posso fare il killer tutti i giorni, purtroppo. Cosa che mi piacerebbe davvero, il sogno realizzato da quando ero ragazzo mentre leggevo Segretissimo. Io le ferie le devo pianificare in ufficio, la mia copertura, per non lasciare dei buchi sulle attività; mi farei un buco in testa a pensarci, se non fosse che la prima regola del killer è quella di non farsi ammazzare. Tanto meno dalla società moderna.

2.
Non poter esercitare giornalmente la professione  in cui sei il migliore ti fa diventare un po’ 
paranoico. Che io sia il migliore lo penso da solo, non c’è una classifica dei killer come all’Olimpiade: per fare certi mestieri bisogna essere egocentrici e bisogna sopravvivere, anche a costo di essere scortesi. Non soffermarsi a dire ad una vittima “Coraggio, fatti ammazzare”, ma sparare senza fiatare. Alcuni romantici lasciano un cadeau di ricordo, alla Occhi di Gatto, ma dopo un po’ muoiono. Io no. Io non sono un romantico e ci tengo a vedere i miei capelli diventare tutti bianchi. Sono uno che porta a casa il risultato ed ha come obiettivo solo di piacere a sé stesso. Se non sono egocentrico del resto mi accoppano.

3.
Dicevo della paranoia. Per dare un’idea sono diventato amante della Formula 1 perché ho scoperto che un  pilota si chiama Glock.  Tutt’altro che un campione, perciò  lasciai perdere. Non  tutte le Glock escono col buco. L’importante  però  è che la mia ce  l’abbia, il buco: quello della canna intendo.

4.
La mia psichiatra, che mi dà dello schizofrenico, mi consiglia di scrivere per alleviare le sofferenze di credersi un killer a tempo parziale; quando non ho davanti a me un obiettivo, da accoppare, il mio obiettivo si riduce a riempire delle pagine a mo’ di purgante, per purificare la mia mente obnubilata dai pensieri “malavitosi”.

5.
“La smetta di pensare di vivere a Marsiglia”, mi è solita dire la Carla. Come se s’ammazzasse solo a Marsiglia. Ma la vita è un parapiglia anche se non si vive a Marsiglia, così come ci sono bari anche fuori da Bari. Vai a farlo capire alla dottoressa.
Bella donna, sulla quarantina anche lei, i cui capelli definirei rosso magenta se non fossi daltonico. Magari sono castani castagna. Me l’ha consigliata Antonio, il mio unico vero amico, anche perché è mio fratello.  A lui ho confidato la mia  trama, raccontandogliela un po’ naif, per non scoprirmi troppo. Tanto sono certo che mi prende per eccentrico all’inverosimile e non  gli dà credito di un centesimo. E poi è riservato di natura. Mi ha sempre visto come l’anello di congiunzione tra l’uomo e il pagliaccio, uno nato per far ridere intendo, ma che non è mai riuscito a dare libero sfogo alla sua reale natura. Per un certo verso ci ha preso,  e preoccupato ha fatto quello che un buon fratello maggiore deve al minore:  aiutarlo. In questo caso mandandomi da una strizzacervelli amica sua. 
“Hermano, fammi ‘sto favore va. Manco la paghi che c’ho degli affari con quella. Sai, un po’ di qua un po’ di là, meglio tenere il piede in più scarpe”, e mi ha strizzato l’occhio. Diavolo pure lui. Mica me l’aspettavo che c’avesse di queste tresche. Da uno che fa il broker d’assicurazioni, al massimo, t’aspetti che gli si macchi la camicia di pezze d’ascella. 

6.
Buonanotte caro diario, ci vediamo domani, credo di aver scritto a sufficienza stasera, purtroppo mi stanco a fare quello di cui non sono capace e non sono un killer sentimentale, così come mi stanco di te, che dovrai essere la mia coperta di Linus.
Silenzio, poi: “Bang Bang!”.
“Cos’è successo?”.
Niente, creavo solo un po’ di suspense per me stesso…

7.
Siccome non sono uno scrittore, ti dovrai  sorbire ripetizioni, appiattimenti della storia  o veloci 
accelerate di ritmo - scusa sono sotto psicofarmaci - oppure a volte perifrasi quali “'l’tristo sacco /che merda fa di quel che si trangugia” per indicare lo stomaco ovvero volgari parolacce da scaricatore di fronte ad un porto. Quando ero a scuola ero forte nella scrittura dei temi, ma dovevo sviluppare il titolo per dare la mia opinione al maestro; che poi a lui non piacesse, è un’altra storia. Diceva sempre a mia madre che stavo alla genialità come un tonno sta al delfino… è chiaro? Ora, forse è vero che non ero un genio, ma un bambino deve per forza essere un genio per prendere sei in un saggio di italiano? A me piace più pensarmi come un pesce siluro, che non guarda in faccia a nessuno  quando deve arrivare alla sua preda. Leggende dicono che  fagociti anche cani, sommozzatori, scarpe  Prada e via dicendo. E’ quindi un pesce democratico, che non concede privilegi alla propria preda, quello di sentirsi predata perché importante. Diversa è la nostra società: anche e soprattutto nel mio mestiere, ci sono maschi alfa e maschi beta, di maschi omega è pieno il mondo ma non serve ammazzarli, la plebaglia fa sempre comodo ai capibranco. Quindi, non divaghiamo appunto, scusa il pluralia maiestatis, ma hai già capito che soggetto sono, anche perché te l’ho detto io. “Io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi…e nelle unghie, allora…ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona”.
Ora, sei d’accordo con questa frase?, non l’ho scritta io naturalmente, e sottolineo il naturalmente oltreché l’io. Ma vorrei solleticare la  tua intelligenza. Ogni tanto quindi riporterò una citazione, per farti pensare a me anche quando ti avrò chiuso Diciamo che, visto che mi danno dello schizofrenico, voglio farti sentire perseguitato un po’ anche a te. Ma… non divaghiamo per davvero. La Carla mi ha consigliato di tenere un diarietto, una pagina al giorno, per scrivere il mio zibaldone di idee, con il preciso fine di aiutarmi a liberare la mente dall’idea di essere un killer inattivo e quindi frustrato. Il fatto che mi porta a farlo sul serio, lo scrivere intendo, è che io sono frustrato  per  davvero! Perché  oltre a non potere  esercitare il mio mestiere quotidianamente  lavoro sotto copertura per una banca, come analista interno. Questo comporta  alla mia frustrazione originale  anche la frustrazione tipica dell’impiegato medio, che definirei meglio come impiAgato, tanto per rendere l’idea.  La vita dell’impiAgato è come una sciarada monca in cui si deve scoprire solo quale lettera sostituire alla “X” nella parola “MerXa”. Non so se fila il ragionamento, ma ho accettato la scelta di scrivere. E poi una paginetta al giorno non è niente. E’ dura dover timbrare ogni giorno un cartellino se sai di essere più svelto di Terence Hill a maneggiare la colt. Che colpi potrebbero partire tutti i giorni da questa mano, la mano sinistra del diavolo, bang. Mi parte un sorriso ora, fugace come una passante che non rivedrai mai più. Meglio lasciare perdere i sogni, sennò dal nervoso mi parte un ponte.

8.
Certo  che scrivere  a ruota libera non  è poi tanto difficile.  Diverso è provare a descriversi. 
Fisicamente, caratterialmente, geomorfologicamente (certe persone hanno una pelle nel viso che sembra il lascito di un’eruzione del Teide), “Porta gli occhiali, il cappello com’è: ma è Jack, ecco chi è!”. Arrivare alla buona rappresentazione di Jack non è poca cosa, in questo caso, che poi non è un caso, ma più che altro un caos. Cambiando l’ordine degli addendi il risultato cambia eccome. Prova a dare un giudizio, anche solo con un aggettivo differente, e vedrai che tutto scorre diverso, dammi un aggettivo d’appoggio e solleverò il mondo del tuo giudizio:

Jack era alto. Barba rasata con i baffi alla siciliana, sguardo sciupato, i capelli neri con  alcuni 
ciuffi grigi aggiustati con una riga retrò, qualche chilo di troppo sul ventre.

Jack era bassetto. Barba rasata con i baffi alla siciliana, sguardo sciupato, i capelli neri con alcuni ciuffi grigi aggiustati con una riga retrò, qualche chilo di troppo sul ventre. 

Nel primo caso si parla di un uomo che ha la più importate caratteristica che gli fa possedere mezza bellezza. La restante parte della descrizione è un corredo di nozze, le nozze coi fichi secchi; non si dice l’età, ma dev’essere sulla quarantina, ha lo sguardo sciupato, perché sciupa le femmine o la vita  appresso a qualcosa d’altro non si sa. E’un esteta, amante di sé stesso, porta i baffi curati, questo è conclamato.  I capelli, ne abbiamo già parlato in precedenza.  Alto e sciupato dagli avvenimenti è già affascinate di per se. Bassetto e sciupato sembra la descrizione di un tappeto turco di un vecchio hamman. Ecco, l’uomo del secondo caso nella mia testa è per esempio un turco, stanco per la giornata passata a scaricare e caricare datteri al mercato, che porta i baffi sì, ma per tradizione e non per estetica e li ha alla siciliana perché è mezzo glabro sul viso. E’ sciupato come l’altro, ma dalla quotidianità. Entrambi hanno qualche chilo in più, ma io perché non si è mai visto un killer che beve latte, solo nel cinema. Il turco perché la sera mangia sino all’orlo per non moriresenza sapore. Di aglio, che tiene lontani i vampiri della vita.

9.
Sono un killer, professionista, il cui nome in codice è Jack. Il mio vero nome però è Giacomo Lai.

10.
Io voglio alzarmi ora, e voglio andare, andare ad Innisfree, e costruire là una capannuccia fatta d’argilla e vimini: nove filari e fave voglio averci, e un alveare, e vivere da solo nella radura dove ronza l’ape”. Quanto mi ha fatto compagnia la musicalità di questi versi di Yeats nel corso della mia vita. Io ape regina della mia famiglia, il più piccolo e il più venerato. Da sempre mangio miele a man bassa, forse nell’errore di credermi immortale come gli dei dell’antica Grecia, gli unici che potevano cibarsi di ambrosia a quei tempi. Io che ne ho bisogno davvero per sperare di alzarmi dal mio letto la mattina, e non svegliarmi invece in un letto di sangue. Seppur dolce, non è mai divino come il miele.

50.
Credo di non farcela più. Ho strappato tante pagine, un raptus. Due mesi di scritture mie personali. Ho il mio motivo oltre al solito, ed è tremendo. Sfogo: Mi sembra di scrivere il mio coccodrillo. La mia estrema unzione. Il mio eterno riposo, che donerai a me o Signore, e risplenda a lui il fuoco perpetuo delle fiamme blu dell’inferno.  Amon. Termino questo necrologio con la storpiatura dell’amen, una blasfemia forse, ma non voglio che “così sia”. Prosit anzi, alla mia salute dovrei brindare, che sono ancora nel fiore degli anni ma stanziato in una stanza buia e ancora distanziato dallo zio Sam, che non mi dice più “I want you” per fare il mio dovere, nemmeno ora che non è necessario un mandante. 

51.
Ho  preso l’accendino  ed ho  acceso il gas.  Una fiammata mi ha  cotto qualche pelo del braccio, espandendo un profumo di pelle di pollo abbrustolita che ha coperto quello del mio dopobarba denim, acre ed alcoolico per l’uomo che non deve chiedere mai. Io infatti non ho mai chiesto niente a nessuno, sono gli altri che mi cercano per fare fuori degli altri ancora. La pubblicità è la vera sesta arte. Abbassata la fiamma, mi sono reso conto di essere mortale  per davvero.  Ora lo so:  la mia recente disillusione è riuscita a togliermi il giubbetto antiproiettile e rendermi già vulnerato. Sono andato in bagno e ho preso un ferro per fare la maglia, comperato il giorno prima in un vecchio negozio in via Belmeloro. La ragazza che me l’ha venduto non mi ha chiesto il perché o il percome un uomo si è preso la briga di comperare un oggetto tipicamente utilizzato dalle donne. Una persona riservata. Non ce ne sono tante al giorno d’oggi. Ho appoggiato il ferro sul fornello, metallo contro metallo. Bene, il gioco è fatto, quanto è semplice farla finita se uno vuole farlo in silenzio, seduto sul divano di casa con della buona musica. Gian Maria Testa, il suo caldo sussurro e i pizzichi di chitarra mi è sembrato adatto. Rispettoso ed educato, o meglio edulcorante. E’ così semplice andare nei campi elisi che basta perforarsi un polmone con un ferro da maglia incandescente. Lo si può fare da soli, senza aiuto. Self made killer. E’ molto doloroso, una scelta per uomini veri, io infatti uso il denim, non per mezzeseghe che si rifanno le sopracciglia e poi si passano il Lasonil sopra perché gli brucia.

52.
Ho pensato a questo modo per inscenare un omicidio per la mia prossima terapia suggerita dalla Carla. Lo psicodramma. Stavo quasi per prenderci gusto alla fine, meno male che Testa ha finito di cantare e mi sono rimesso la testa sulle spalle. La condizione in cui mi trovo è proprio fuori dal tempo. Distortion.

53.
Quando Carla ha parlato dello psicodramma mi è venuto mezzo da ridere. Per rispetto del ruolo naturalmente hanno riso solo i miei occhi: I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi che tu venga all'ospedale o in prigione nei tuoi occhi porti sempre il sole.

54.
“E’ una terapia di gruppo ideata da J. Levi Moreno. Si inscena un gioco drammatico e si mira a sviluppare la spontaneità dei pazienti facendo emergere i loro vissuti personali, grazie a improvvisazioni sceniche. Il  "direttore del gioco" è lo psicoterapeuta che analizza tutto quanto accade”, mi ha spiegato la Carla. Sono proprio un ignorante, io al massimo potrei citare Levi Strauss, ovvero Michael J. Fox in “Ritorno al futuro”. La Carla finito di parlare si  è alzata  e si  è guardata i jeans soddisfatta, riflesso incondizionato o condizionato?

55.
“Giacomo, con questa ultima terapia possiamo considerare terminata la nostra analisi”, mi ha detto la Carla l’ultima volta che ci siamo visti. A me non sembrava tanto di stare meglio, ma è pur vero che la nostra “analisi” è tutta basata su una falsa rappresentazione della realtà; lei pensa che io sia un pazzo che crede di essere un killer, mentre io so di essere veramente un killer che sta diventando pazzo per altri motivi, soprattutto l’ultimo in ordine di tempo. “Alla messa in scena parteciperà oltre a me, in veste di direttore del gioco, anche un altro paziente che eserciterà il ruolo di vittima. E’ ben inteso che la sua diagnosi è di schizofrenia acuta”. Il tizio pare che abbia il timore di essere intercettato dalla CIA, non si sa per quale motivo, e che la sua vita sia continuamente “in pericolo”. SAS:  Sua Altezza Stronzissima. A pensarci bene mi fa una grande tristezza l’idea di ridurmi ad inscenare un finto omicidio,  “Anche i killer  piangono”,  da granguignolesco che ero ora sono diventato una marionetta nello stesso teatrino di un povero relitto della società umana, quintessenza del disgraziato.

56.
Avrei  ancora tante altre pagine da scrivere in questo diario, perché vada come vada con questo psicodramma la mia vita è oramai un dramma davvero, da prima pagina in Cronaca Vera, e delle pastiglie non posso più fare a meno per riuscire ad accettarmi per quello che sono, nemmeno per digerire questa ultima “frittata” che mi ha cucinato Antonio, amara come il radicchio trevigiano. A domani mondo, questa sera niente miele per me.
***
Rapporto n. 25021978 da parte dell’agente nome in codice Painkiller  - 20 Ottobre 2012, 
Milano

Si comunica l’esito positivo della missione affidatami. Stop.
Segue rapporto. Stop.

Giacomo Lai, killer freelance meglio conosciuto come “Jack”alias “Il bello del quartierino” alias 
“Filastrocca” di seguito “il soggetto”, catalogato dall’agenzia come - Rating pericolosità: AA+- , 
è stato terminato in data 19 cm alle ore 10:08. Il soggetto è stato  mantenuto sotto falsa  cura 
psichiatrica presso la nostra sede di copertura in via Gian Galeazzo Sforza 17, Milano dalla data del 16 Agosto 2012 sino alla data del termine sovra indicata. Lai Antonio, nostro agente segreto di stanza a Cinisello Balsamo e consanguineo del soggetto, è stato attore fattivo nella buona riuscita dell’esito della missione. Il Lai Antonio, in virtù delle elevate arti di persuasione apprese presso le nostre scuole di specializzazione in Indocina  e, in seconda istanza, della mal posta  fiducia che riponeva  il soggetto nel medesimo,  ha abilmente  spinto il soggetto  stesso  a sottoporsi a visite periodiche presso la nostra sede di via Gian Galeazzo Sforza 17, Milano, con il fine di alleviare le ininterrotte crisi di ansia di cui il soggetto ha confidato al nostro agente soffrire da anni. Il nostro collaboratore, con adamantino senso del dovere, non ha esitato a cogliere nelle confidenze del soggetto uno spiraglio per potere dare avvio alla missione nelle more poi inscenate, considerando agli effetti nullo anzi infangante ogni legame con il fratello alla luce delle apprese  di lui attività criminali. Nelle citate sedute, con la sottoscritta sotto mentite spoglie di medico psichiatra, è stata praticata al soggetto la tecnica dell’ipnosi zurlina, con il preciso obiettivo di  estrapolare al soggetto ogni informazione utile alle nostre necessità, per il bene di Patria e della continua pace mondiale. Non era difatti funzionale alla nostra missione attivarsi con il termine del soggetto senza operare un solo tentativo di manipolazione della di lui mente, per carpire ogni utile segreto finalizzato alla nostra sicurezza. Il tentativo, effettuato tramite ipnosi in prima istanza ed in seguito indotto tramite autoconfessione scritta,  è  malauguratamente naufragato ad un  “Senza esito”.
Appurato che la corteccia cerebrale del soggetto si è rivelata impenetrabile nonostante le più alte tecniche di manipolazione in nostro possesso, è stata mia precisa indicazione avviare il temine del soggetto. Nella data sopra indicata, il soggetto è stato condotto in un’ala dello studio di via Gian Galeazzo Sforza 17, Milano all’ uopo insonorizzata, ove è stato incoraggiato ad inscenare una simulazione di omicidio per psicodramma (tecnica psicologica che abbiamo ipotizzato essere funzionale ai nostri fini) di fronte alla sottoscritta e ad un secondo paziente, il nostro agente scelto Abdul Karim Sukur alias “Il turco” sotto mentite spoglie. Non appena il soggetto si è avvicinato al nostro agente scelto impugnando  un ferro da maglia con  il preciso  intento di operare il falso omicidio,  “il turco” ha estratto dalla fondina  una Beretta modello Px4 Storm SD Type F  fusto acciaio silenziata di ordinanza, con la quale ha  inferto al soggetto un colpo mortale  nel  centro dell’osso frontale del cranio. A temine avvenuto, l’agente  Lai Antonio ha effettuato una perlustrazione nell’appartamento del soggetto, non rilevando altro da porre agli atti se non l’Allegato 1 al rapporto in corso. Nulla di rilievo è stato altresì riscontrato negli abiti indossati dal soggetto il giorno del suo termine, se non un biglietto nella tasca interna della giacca che riportava la seguente frase: 

- Vedo la luna, vedo le stelle, vedo Caino che fa le frittelle, vedo la tavola apparecchiata,  vedo Caino che fa la “frittata” -

La carta, da analisi al microscopio, è risultata essere intrisa di acqua e di contenuto salino.


Allegato 1 – Scritti personali del soggetto 

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martedì 18 settembre 2012

PURIFICAZIONE.

Racconto vincitore del concorso Giallo Miele 2012.








La signora Matteucci tornò dalla sua vacanza alle terme e non trovò suo marito ad accoglierla. Non che dopo oltre quarant’anni di matrimonio si aspettasse una festa a sorpresa, ma almeno una mano per portare dentro i bagagli poteva dargliela! Nessuno gli avrebbe risparmiato una bella ramanzina.
Entrò faticosamente in casa trascinando le valigie e lo chiamò. Lo chiamò nuovamente, più forte, poi controllò che non fosse in giardino. Probabilmente era in cantina a trafficare con le sue bottiglie di vino e non poteva sentirla. La donna aprì il frigorifero penosamente vuoto, come c’era da aspettarsi  da un uomo sposato dopo una settimana di assenza della moglie, trovò comunque una bottiglietta di thè freddo, si sedette sul divano e accese il televisore. Rimase perplessa quando, terminata la puntata dell’Eredità, suo marito non si presentò per la cena, e decise di andare a controllare.
Al centro della cantina vide un grosso sacco di plastica ben chiuso, di quelli che si usano per i rifiuti. La sagoma di ciò che conteneva non lasciava dubbi. La signora Matteucci corse verso il cadavere di suo marito, strappò il sacco disperatamente e urlò osservando inorridita le proprie mani.

Il nuovo arrivato, l’appuntato Vito Ragusa, indossava sempre gli stessi occhiali neri e aveva sempre la medesima espressione seria, imperturbabile, a tutte le ore, in tutte le situazioni.  Come Sylvester Stallone quando recita. Sembrava anche l’unico di tutta la Compagnia a  non essere distratto dalla procacità del Maresciallo Stefania Abbondanti e probabilmente era per questo che l’avevano affiancato a lei.
“Il Capitano Zamboni non si occupa direttamente dei casi di omicidio?” Domandò il giovane carabiniere.
“Oh, sì.” Rispose la donna. “Ma ha un problema con i cadaveri: se ne vede uno si sente male, vomita, sviene. Non è uno spettacolo consigliabile.”
“Non sarà peggio che vedere la scena di un omicidio.”
“Me lo dirà la prima volta che le toccherà di portare la divisa in lavanderia.”
Ragusa non rispose. Fermò l’auto nei pressi della villetta dei Matteucci e scese, seguendo il Maresciallo Abbondanti nell’edificio. Un infermiere li accolse: “Signori.”
“Avete spostato il corpo? La moglie dove si trova?” Stefania si guardava attorno per capire se ci fossero indizi di quel che era successo.
“Abbiamo solo controllato che fosse effettivamente morto. La signora si trova in ospedale, è sotto shock. Il corpo è in cantina, vi accompagno.”
Scesero una rampa di scale non molto ben illuminata. Il cadavere era sdraiato sul pavimento, ancora per metà dentro il sacco. Il Maresciallo si mosse decisa, per esaminarlo da vicino.
“Faccia attenzione!” Esclamò troppo tardi l’infermiere.
Stefania Abbondanti scivolò battendo il sedere a terra e proseguì slittando su una sostanza viscosa fino a trovarsi sdraiata accanto al morto. Alzò il busto di scatto e gridò acutamente scuotendo le mani: “Oddio che schifo, cos’è questa roba? Toglietemela.”
“Sembrerebbe miele, Maresciallo.” Arguì Ragusa, dritto in piedi sull’ultimo gradino della scala, con il cappello sotto braccio e gli occhiali neri  nella penombra.

“È piuttosto insolito.” Ammise il Capitano Zamboni. “Mi faccia capire bene, Abbondanti. Il cadavere era immerso nel miele, dentro un sacco per la spazzatura?”
“Sissignore. Quando la moglie della vittima ha aperto il sacco, il miele si è sparso per tutta la cantina.”
“E il maresciallo c’è scivolata sopra, inzaccherandosi tutta.” Aggiunse Ragusa.
“Ho saputo.” Affermò Zamboni con la sua solita, paciosa faccia da schiaffi. “A quanto pare gran parte del personale della Compagnia è solleticato dal pensiero del Maresciallo Abbondanti tutto ricoperto di miele.”
La ragazza si infiammò in volto e sbottò: “Ho fatto una brutta caduta e sono ancora dolorante! Invece di fantasticare su certe cose i miei colleghi dovrebbero pensare alle mie povere chiappe!”
Ragusa fissò i suoi occhiali neri verso la collega, il sorriso sornione di Zamboni si allargò ancora di più, Stefania Abbondanti stavolta sbiancò: “Cioè… Intendevo dire… non in quel senso… Io…”
“Ho capito, Abbondanti.” Disse il Capitano facendosi serio.
“Perché mai l’assassino si è preso la briga di mettere il cadavere nel miele? Cosa significa?” Senza aspettare una risposta aggiunse: “Maresciallo, avvisi il Professor Deangeli che stiamo andando a fargli visita.”

Aldo Deangeli era un professore di storia con la passione dell’apicoltura. Tutti in paese prima o poi avevano comprato un barattolo di miele da lui e avevano ascoltato un suo aneddoto sulle api e sulla loro importanza, Zamboni compreso.
Arrivarono accolti dall’abbaiare dei cani. “Non vi preoccupate, sono innocui.” Disse l’uomo ai carabinieri che stavano scendendo dall’auto.
“Che carini, quanti ne avete?” Domandò la Abbondanti carezzando un grosso bastardone che le si era avvicinato.
“Questi tre, più uno piccolino che teniamo in casa. Non abbiamo figli e loro ci fanno tanta compagnia. Entrate pure. Al telefono mi avete detto che vi servono informazioni sul miele, ha a che fare con l’uccisione di Matteucci?”
“Sì, speriamo che lei possa aiutarci.” Rispose Zamboni varcando la porta.
“Mi avete trovato per puro caso. Sono tornato stamane da Pisa, dove ho tenuto una serie di lezioni. Ma lo sa che io e Matteucci eravamo compagni di scuola alle elementari. Pensi che l’ho incontrato due settimane fa, dopo anni che non ci vedevamo.”
“Ma davvero?”
“Già, prima di partire ho portato mia moglie fuori a cena. Al ristorante c’erano anche Matteucci e Tarroni, un altro compagno di scuola; loro sono sempre stati due amiconi fin da piccoli. Mi hanno salutato, a fatica però, anche perché erano lì con i figli e una gran nidiata di nipotini che facevano una tale confusione.”
“Gli ultimi momenti felici. Nessuno se ne rende mai conto in questi casi. Professore, il corpo di Matteucci è stato sommerso nel miele, mi chiedevo quale significato simbolico potrebbe avere.”
“Interessante!” Esclamò l’accademico. “E anche terribile. Gli egiziani usavano il miele, mescolato alla propoli, per imbalsamare i loro morti. Presso gli antichi greci, l’ambrosia era considerato assieme al nettare il nutrimento degli dei e produceva sangue divino, donando immortalità ed eterna giovinezza. Entrambi gli alimenti venivano preparati da Demetra, ghiotta di miele, con l’aiuto delle sue sacerdotesse, chiamate per questo Melisse.”
L’uomo smise di parlare e si rivolse alla moglie che stava quietamente seduta con il suo maltese sulle ginocchia: “Lidia, tu conosci già tutte queste storie, vorresti portare un poco di ricotta con quella mia nuova produzione? Vorrei farla assaggiare ai nostri ospiti.”
L’elegante signora si alzò poggiando la mano sulla spalla del marito e sorridendo si avviò in cucina, seguita dal suo cagnolino bianco.
“Ma dicevo, il valore simbolico del miele: ci sono riferimenti molto interessanti nella cultura orientale. Nei Veda il miele è considerato elemento di fertilità, portatore di vita, il grande oceano di sperma, principio fecondatore. Nell’antica cultura giapponese, esso è simbolo della terra e del centro, tanto che tutti gli alimenti dati all’Imperatore, trascendente figura divina, erano conditi con il miele.”
Il professore fece una breve pausa compiaciuta, quindi proseguì: “Ma non credo che queste cose vi siano utili. Al contrario vi interesserà sapere che nell’antica Roma i seguaci del culto di Mitra erano gerarchicamente divisi in vari gradi di iniziazione: i Leoni di Mitra erano un grado intermedio, si occupavano del fuoco degli altari e dovevano preservare la mani pure da ogni atto che rechi dolore, danno o infamia. Poiché erano legati al fuoco purificatore, durante le cerimonie potevano adoperare per l’abluzione solo il miele, essendo l’acqua notoriamente nemica del fuoco. Così con esso si purificavano le mani e la lingua dagli elementi impuri e peccaminosi.”
“Così l’assassino avrebbe purificato il povero Matteucci…” Commentò Stefania Abbondanti.
Rientrò la signora Lidia con un vassoio e lo appoggiò in tavola. “Ecco qua.” Disse la donna. “L’ultimo prodotto del nostro alveare, aromatizzato all’anice.”
“Sembra ottimo.” Constatò il Capitano allungando bramosamente la mano verso una ciotola.
“Lo può ben dire.” Affermò orgogliosamente Deangeli. “Ritengo che ogni cosa, cosparsa di miele, acquisisca una grande sensualità.”
Il Capitano alzò un sopracciglio in direzione della Abbondanti, che non riuscì a evitare un certo rossore sulle guance.
“Sto parlando di cibo, naturalmente.” Continuò il Professore con un lieve sorriso ironico, dopo aver notato la scena. La ragazza frugò nervosamente  nella sua borsa e ne estrasse un barattolino: “Ho portato un campione del miele che ricopriva la vittima, vuole darci un’occhiata?”
Il Professor Deangeli esaminò la sostanza facendola colare da un cucchiaino. “Piuttosto liquido e trasparente, ambrato, quasi dorato. Dall’odore direi che è miele di marruca. Dovrei assaggiarlo per esserne sicuro, ma temo che il suo retrogusto di cadavere non sia di mio gradimento.”
Zamboni piantò lì una sonora risata, domandò: “Dove lo vendono?” Poi infilò in bocca un'altra grossa forchettata di ricotta.
“È abbastanza raro. Viene prodotto quasi esclusivamente in toscana e solo nelle annate propizie.”

L’indomani, il Maresciallo Abbondanti aveva fatto un giro di telefonate e non ci aveva messo molto a scoprire che una grossa quantità di miele di marruca era stata acquistata da Paolo Tarroni pochi giorni prima.
“Tarroni? Quello che era a cena con la vittima? L’amicone del Matteucci?” Domandò Zamboni alzando lo sguardo dal dossier del caso.
“Proprio lui. Ho mandato Ragusa e Azzolini a prenderlo per poterlo interrogare.”
“Bene. Stavo esaminando questa relazione: non ci sono segni di scasso, l’assassino è entrato con il consenso della vittima, e l’ha soffocata, probabilmente con un sacchetto di plastica. Vedo che il corpo ha una specie di bruciatura sulla faccia. Da dove può venire?”
“Si direbbe il segno di un taser, Signore. Uno strumento che paralizza le persone tramite una forte scarica elettrica.”
“Già. Quindi l’assassino non era sicuro di poter sopraffare un uomo di oltre sessant’anni. Mi pare che non vendano questa roba in Italia.”
“Si acquista abbastanza facilmente su internet.”
“Capisco. E non abbiamo testimonianze utili. A quanto pare Tarroni è il nostro unico sospettato.”
“Non sembra convinto, Signore.”
“Di solito quando due amici di vecchia data si ammazzano, lo fanno senza tante storie.”
Mentre Zamboni rifletteva su queste parole, il suo telefono squillò: Ragusa e Azzolini avevano trovato Paolo Tarroni nel suo appartamento, chiuso dentro un sacco pieno di miele.

Zamboni annunciò che sarebbe andato a tagliarsi i capelli.
Stefania Abbondanti sorrise: “Non spettegolate troppo su di me…” Ma sapeva che quel giorno si sarebbe parlato solo delle due vittime. Il Capitano aveva bisogno di raccogliere informazioni su di loro e nessuno poteva saperne più di Enrico il barbiere.
“Capitano, io e quei due abbiamo fatto i giovani insieme! Che brutta fine.” Affermò l’uomo mentre tagliava i capelli al carabiniere. “Li chiamavamo Porfirio e Rubirosa, perché avevano sempre le ragazze più belle. Anche dopo che si sono sposati non hanno mica smesso di fare i playboy. Poi dopo cinque o sei anni si sono calmati anche loro.”
“Si sono calmati?” Chiese il Capitano.
“Eh sì. Si vede che le mogli hanno cominciato a dire davvero. Hanno smesso tutti e due di fare i galletti.”
“Tarroni era vedovo. Magari aveva ricominciato a frequentare qualche donna.”
“Non credo mica. Due anni fa ha subito una certa operazione che non consente più di fare la ginnastica artistica. Quei due lì erano tipi tranquilli, si godevano la pensione; più che altro gli piaceva mangiare bene, e tanto.”
“Non sono morti di indigestione, però.” Commentò amaramente Zamboni.
“Ad ogni modo sarà meglio che lo troviate in fretta questo assassino, prima che Bruno Vespa faccia un plastico del paese. E poi la gente ha paura: Edda, la vecchia mammana, si è fatta accompagnare a Vicenza, a casa dei suoi figli. Figuriamoci che non aveva voluto uscire di casa neanche quella volta che avevano evacuato la sua strada per una fuga di gas. doveva proprio essere terrorizzata. E i miei clienti cominciano a dire che c’è un serial killer in giro.”

Il ragazzo delle pizze suonò in caserma e fece la sua consegna.
Zamboni non aveva intenzione di riposare finché non avesse trovato almeno una pista da seguire, un sospettato, un ipotetico movente. Naturalmente non avrebbe concesso di riposare nemmeno al suo Maresciallo preferito.
“Gorgonzola e peperoni? Abbondanti, questa non mi sembra una pizza da ragazze.”
“Conosce molte ragazze, Capitano?”
“Ragazze di una volta.” Sorrise lui. “In paese dicono che è opera di un serial killer.”
“I due omicidi sono identici: l’assassino si fa aprire la porta, immobilizza la vittima con un taser, la soffoca e la chiude in un sacco pieno di miele. Però i serial killer di solito colpiscono vittime a caso, questi due sono collegati.”
“Cos’è che li collega? Erano amici, ma non abbiamo trovato niente che possa anche lontanamente giustificare una volontà omicida. Avete scoperto perché Tarroni aveva comprato tutto quel miele?”
“Uno dei suoi figli dice che voleva regalarne un barattolo a testa ai parenti in occasione della cresima della nipotina. Bomboniere insomma.”
“Una cresima che lui non vedrà. Figli e nipoti sono una gioia che bisogna godersi ogni volta che si può. Che mi dite dei sacchi? Erano del Tarroni anche quelli?”
“Non ne abbiamo trovati di uguali in nessuna delle due abitazioni.”
“Quindi l’assassino se li è portati da casa. Ha ucciso il Tarroni già con l’intenzione di metterlo dentro un sacco,  poi ha visto il miele e ha deciso di purificare la vittima, conservandone metà per il Matteucci. Cosa voleva dire? Perché li ha infilati lì dentro?”
“Li odiava, li considerava spazzatura?”
Zamboni scosse il capo. “In questo caso sarebbe stato sufficiente ammazzarli. È qualcosa di più profondo. Qualcosa di antico, probabilmente: sembra che i due fossero diventati tutti casa, famiglia e ristorante.”
“Diventati?”
“Me li hanno descritti come donnaioli impenitenti, da giovani.”
“Potrebbe essere una donna dal cuore infranto? Dopo tutto questo tempo? Che la passione si sia riaccesa nel rivedere uno dei due?”
Stefania Abbondanti aveva notato quello sguardo negli occhi del Capitano, lo sguardo che aveva quando un’idea gli attraversava la mente e non riusciva ad afferrarla. Sapeva che il cervello di Zamboni stava elaborando un’ipotesi, ma che aveva la necessità di essere aiutato, perciò continuò a parlare nella speranza di dargli qualche spunto utile. “Forse un figlio illegittimo. No, in quel caso avrebbe ammazzato solo uno dei due. Rimane ancora l’ipotesi del culto di Mitra. Se vuole posso fare una ricerca per vedere se esiste qualche pazzoide che lo pratica, anche se ne dubito: io non ne avevo mai sentito parlare prima d’ora.”
“Io nemmeno. Sono scettico su questa pista, ma non abbiamo altro. Magari riusciamo a restringere il campo dei sospettati. Coloro che hanno conoscenze così specifiche devono essere piuttosto rari .”
Il Capitano appoggiò nel piatto la fetta di pizza che stava portando alla bocca, meditò ancora un attimo in silenzio, poi il suo sguardo mutò: “Abbondanti, lei sa cos’è una mammana?”
“Non ne sono sicura, Signore.”
“Già, lei è molto giovane. Chiami la Compagnia di Vicenza, che fermino la signora Edda Forti. Inoltre deve procurarmi una cartella clinica.”

Albeggiava, Il Capitano Zamboni finì di sorseggiare un caffè; era di umore malinconico quando si sedette di fronte alla donna. Sfogliò la cartella clinica, tirò un sospiro profondo: “Dovremo farle qualche domanda, se vuole può chiamare un avvocato, in ogni caso dovremo trattenerla qui finché non sarà terminata la perquisizione di casa sua.”
“Non vi farò perdere tempo. Il taser è dentro una scatola di scarpe, nell’armadio della mia stanza da letto.”
“È una confessione?”
La moglie del Professor Deangeli chiuse gli occhi. Il suo volto bello e altero, sebbene segnato dall’età, tradì solo per un attimo il dolore che provava. “Non ho mai sperato di sfuggire alla giustizia, mi dispiace solo di non aver finito il lavoro.”
“Si riferisce a Edda? Voleva uccidere anche lei?”
“Era stata il loro strumento. Avevo conservato un poco di miele anche per lei. Sì, la volevo ammazzare.”
“Perché l’aveva resa sterile?”
“Proprio così. Fu lei a farmi quell’operazione, a togliermi mio figlio e la possibilità di averne.”
“Era rimasta incinta di Matteucci e Tarroni aveva coperto il suo amico? O viceversa?”
“Chi lo sa?” Sorrise dolorosamente la donna. “Erano belli, sapevano dire le cose giuste e io avevo poco meno di diciotto anni. Finimmo tutti e tre nello stesso letto. Quando seppero che aspettavo un bambino sembravano impazziti. Avevano delle famiglie, delle mogli, mi urlarono contro con una tale veemenza che non fui capace di oppormi. Abortire era ancora illegale, la legge uscì un anno dopo: mi portarono da Edda la mammana. Mi infilò quei ferri orribili, tirò fuori il feto e lo chiuse in un sacco di plastica.”
La donna fu costretta a smettere di parlare, perché il suo spirito era troppo lacerato dal rivivere quel ricordo.
Zamboni posò lo sguardo sulla cartella clinica: “In seguito fu ricoverata in ospedale, a causa di quell’aborto clandestino rischiò la vita. Si salvò ma rimase sterile.“
Lidia Deangeli strinse le labbra, tenendo le mani sulle ginocchia contrite e continuò: “Ho vissuto per anni con questo dolore dentro, con il rimpianto della vita che avrei potuto vivere. Quella sera, quando li ho visti al ristorante, felici, incuranti, con i loro figli e i loro nipoti, è esploso il mio odio. La loro gioia ha innescato il mio rancore. Ho atteso che mio marito partisse, ho ordinato un taser tramite un sito internet russo, appena mi è arrivato sono andata da Tarroni e l’ho ucciso. L’ho messo in un sacco della spazzatura: doveva finire come mio figlio. La stessa notte ho ucciso anche Matteucci.”
“Lo sa, è stato il miele a farmi sospettare di lei. Poche persone potevano sapere che il miele è considerato un elemento purificatore, e lei ne aveva di certo sentito parlare da suo marito. Partendo da questa ipotesi, mi sono chiesto quale rapporto poteva esserci tra lei e le due vittime: vista la fama dei due, da giovani potevate essere stati amanti, ma il movente? Sapevo che lei non aveva figli, e che Edda la mammana era fuggita in preda alla paura. La cartella clinica ha dato una prima conferma della mia ipotesi, e stanotte Edda ha raccontato tutta la storia ai miei colleghi di Vicenza.”
“Gìà, il miele. L’ho visto, ammucchiato sul tavolo, e mi sono venuti in mente i racconti di mio marito, ma non volevo purificarli, quei due. No, che vadano all’inferno immondi come sono. Il miele è anche un simbolo di fertilità: loro avevano rubato la mia, che se la tenessero anche da morti.”




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